Il Vademecum dei mezzi di allenamento per SdC. - Rawtraining
di lenny bottai
Riprendo il bell’articolo di Lorenzo Mosca e continuo su questo filone con il quale intendiamo rendere RT un sito a portata di “specificità” per SdC. Vorrei porre attenzione su un concetto basilare che anche Lorenzo sottolineava nel suo pezzo, ovvero la necessità di determinare e monitorare (quindi programmare) quando, come e perché utilizzare un attrezzo, che diviene un mezzo allenante.
Abbiamo del resto aperto questa serie di pubblicazioni, come avevo premesso nel mio pezzo precedente, per lanciare un sasso “provocatorio” nello stagno degli SdC e smuovere le acque torbide e ristagnanti che privano da sempre le pratiche di allenamento negli SdC di un’analisi concreta. Spesso, infatti, nessuno si pone il problema di motivare l’approccio adottato e si finisce così a fare quel qualcosa senza un “perché” ben definito, massificando la pratica, ma soprattutto senza ricercare un feedback che è necessario per monitorare i progressi e stare lontano dai vari sistemi di compensazione. Questo errore, che si chiama approssimazione, si tramanda poi con la velocità con la quale la peste nera nel quattordicesimo secolo devastò l’Europa.
In decine di siti si possono trovare articoli dai click facili nei quali si dispensano, magari in una manciata di righe, concetti complessi sintetizzati come in una sorta di bignami e farciti da tabelline con esempi di come comporre una preparazione per un combattente – problema che in realtà è assai complesso e per il quale forse un libro intero non sarebbe sufficiente! Questo agorà, come lo ha definito Lorenzo, mira invece a provocare discussioni ben più profonde, prive di certezze assolute, ma che partono da un’unica verità incontrovertibile, ovvero che la pratica sebbene indispensabile non è sufficiente a raggiungere l’eccellenza. Tra i tanti che praticano dobbiamo ricercare un approccio sempre più ottimale, solo seguendo questa strada potremmo infatti aspirare ai massimi livelli in questi sport.
La nostra provocazione mira perciò ad alzare l’asticella ed a fare proseliti, anche accettando critiche che sono sempre necessarie quando coscienti. So bene che da un certo punto di vista ciò equivale ad immolarsi, perché il nostro – il mio soprattutto – non è un ambiente aperto ai dibattiti, essendo molto (troppo) conservatore, ma probabilmente il tempo darà i suoi frutti e un domani forse si diffonderanno analisi e discorsi come questi che, non più provocatori ma consueti, diverranno normalità.
Con Lorenzo ed altri tecnici, ad esempio, ci siamo spesso scambiati delle opinioni sulle evoluzioni che hanno caratterizzato l’utilizzo della corsa negli SdC. Parto da questo punto perché è un po’ il paradigma di tutta una serie di ragionamenti sui mezzi allenanti che intendo trattare, siano essi un tapis roulant, un sacco, due “pesetti” (manubri piccoli), un bilanciere o una peretta. Il punto è che questi strumenti sono funzionali solo quando sono usati con cognizione, di per sé infatti non possono essere né positivi né negativi. Adorarli o demonizzarli è sintomo della stessa deviazione, ovvero è come passare da una dieta paleo ad essere vegani con la speranza che una delle due sia l’elisir della lunga vita o di una prestazione ottimale.
1 – Il tapis roulant (o la corsa in generale).
Fino a qualche anno fa era un elemento indiscutibile, se non addirittura considerato basilare: quasi tutti concordavano che andare a correre “per fare fiato” era fondamentale. Ad un certo punto però, forse per controbilanciare ed esorcizzare lo spropositato utilizzo “random” della corsa, alcuni formatori hanno iniziato a demonizzarla asserendo che equivale a “martorizzare il sistema neuromuscolare”. Una dichiarazione molto forte, in parte vera ed in parte esagerata. In parte vera perché certamente una maratona ed uno sport di situazione dai ritmi variabili, si basano su richieste energetiche e di risposta cognitiva diametralmente opposte. Certamente uno sport da combattimento non si basa sulla capacità di eseguire ciclicamente un gesto, magari per ore, fino allo sfinimento come avviene invece per la maratona, in cui la capacità di economicizzare il più possibile il gesto è alla base della prestazione stessa. Tuttavia, personalmente ho sempre contestato questa posizione e mi sono ben guardato dal prenderla “tout court”, perché è a mio avviso evasiva della complessità che cela l’argomento. Diversi anni fa al corso per tecnici FPI che seguii ad Assisi, chiesi di persona al capo dei formatori, divenuto molto noto per questa posizione, se avesse mai ipotizzato di avere a che fare con un atleta che non aveva mai corso. Prendere in considerazione gli atleti di livello nazionale, farli smettere di correre come dei maratoneti e convincerli che è inutile divenire dei kenioti per combattere, è cosa ben diversa dal costruire da zero degli atleti che solo se dotati finiranno poi nelle elite sportive, rimanendo altrimenti semplici praticanti.
Quel giorno il mio intervento quindi non era ovviamente mirato a contrastare l’autorità indiscussa del personaggio, per altro colto e preparato. Il suo intento era probabilmente quello dissacrare una specie di credenza mistica, che portava ad estremizzare l’utilizzo della corsa fino alla noia, con l’obiettivo di segnare un punto di rottura con un dogma arcaico. Il mio appunto invece mirava a non eccellere nell’altra direzione generando un feedback di ritorno negativo che poteva causare altrettanti danni. Non a caso ho potuto notare che alcuni corsisti, divenuti poi amici, a seguito di questa indicazione generale, abbiano realmente impedito la pratica della corsa ai propri sottoposti per paura di chissà quale effetto negativo. Per ciò che mi riguarda questo si è rivelato un errore diametralmente opposto a quello di mandare a correre un pugile con la speranza di vederlo macinare riprese. Perché se poi lo fa, non è di certo grazie al tempo dedicato alla corsa in sé, anche se poi magari lui e il maestro andranno “orgolioni” dei tanti Km percorsi.
A volte mi sono offerto come cavia pubblicando sulle mie pagine social i risultati di varie prove effettuate in merito all’impatto della corsa sulla preparazione. Ad inizio preparazione dedico sempre una buona porzione introduttiva alla cosiddetta GP (preparazione generale), nella quale abbino al cosiddetto adattamento anatomico (alto volume e bassi carichi), svolto con i pesi attraverso i multiarticolari più importanti, la cosiddetta corsa lunga; un binomio ideale se un atleta viene magari da un periodo di “nulla” (ozio e riposo), che porta ad avere un incremento di condizione generale di base. Addentrandomi nella preparazione, poi, rendo ovviamente il tutto più specifico: la corsa viene abbandonata e relegata a qualche seduta di recupero relax o magari utilizzata per coadiuvare la perdita di peso.
Proprio per capire l’impatto della corsa sulla preparazione, dopo aver fatto passare diverso tempo dall’ultimo match disputato, ho provato a ripetere il classico test dei 12′ su treadmill, curioso di capire di quanto fossi peggiorato. Con sorpresa, seppur non fossi di certo più allenato di prima e non fossi più indubbiamente in grado di sostenere quelle 10 o 12 riprese al top della mia condizione, il test fornì comunque ottimi risultati.
Con questo esempio volevo solo sottolineare che l’adattamento generale tende a permanere nel tempo e costituisce solo la base sulla quale poi si deve costruire il resto. Questo aspetto non rappresenta infatti la sostanza del picco prestazionale da raggiungere; il problema quindi non è la corsa in sé, ma semmai l’utilizzo che ne possiamo fare: come, quanto, quando e perché. L’adattamento che essa garantisce è tangibile, ma allo stesso tempo, se la programmazione è stata impostata correttamente, il condizionamento generato tende a permanere con il proseguo della preparazione. Il mantenimento di quanto “seminato” infatti viene garantito per un certo periodo da tutti gli allenamenti di routine, e i risultati si possono osservare anche dopo un periodo di cosiddetto “ozio” (con “ozio” si intende un periodo in cui gli allenamenti non perseguono particolari finalità in vista di una competizione, non certo un periodo in cui si girano le birrerie della zona…).
Se questo principio è vero per il condizionamento generale, non si può dire altrettanto per gli adattamenti e le capacità specifiche: per sostenere le 10 o 12 riprese in una condizione ottimale serve un allenamento altamente specifico, che non è altrettanto facile da raggiungere e mantenere.
Si può fare a meno quindi della corsa?
(domanda ridondante)
Credo di si. Ma non vedo francamente perché, anche e soprattutto in virtù della considerazione che correre è un qualcosa di innato e primario, e non si comprende – salvo complicazioni fisiche o logistiche – come mai un atleta non dovrebbe correre tra le tante cose da fare per preparare una prestazione.
Siamo fuori strada quindi se consideriamo la corsa indispensabile nella sostanza di una preparazione, come se la consideriamo un male assoluto, un danno. Perché poi sul ring va la situazione, quindi il fighter, e non la corsa che è stata svolta, neppure con la migliore programmazione possibile. Bisogna ricordare infatti che in alcune zone del mondo, per altro capostipiti in certe discipline come esempio per la boxe in Messico, ciò è tuttora pratica indiscutibile.
E chi va a dire a un Marquez o un Pacquiao che non si deve correre?
Se poi questi sono indotti da insegnanti che gli raccontano che sono campioni perché corrono, è un altro discorso, ma che nulla ha a che vedere con la scienza dell’allenamento che ci spiega benissimo perché si può scegliere o sostituire.
Da anni i maestri si macellano inutilmente sul “si deve” o “non si deve” senza apporre a queste due varianti il dovuto “se”. Una guerra tra guelfi e ghibellini inutile, che a mio avviso ha anche (abbondantemente) stremato i coglioni.
Probabilmente nessuno si è accorto o ha pensato che chi corre raggiunge il top non perché ha corso, così come chi non corre, ottiene dalle routine quotidiane gli stessi identici adattamenti. Fine della diatriba.
2 – Il sacco.
Questo attrezzo comparve più o meno insieme alla boxe moderna, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, con i primi allenamenti alla pratica del combattimento normata prima dal marchese di Qeensberry, ed evolutasi poi man a mano in ciò che vediamo oggi. Il sacco è da allora un mezzo allenante inseparabile per ogni fighter, mezzo indiscutibilmente necessario che nel corso degli anni ha subito evoluzioni di misura, peso e forma, per solleticare diverse fantasie ed esigenze di utilizzo (talvolta con esagerazione), ma va specificato che esso è veramente funzionale solo quando utilizzato con due approcci coscienti e mirati distinti:
A – per il condizionamento.
B – per la correzione tecnica.
A) Può essere utilizzato infatti come mezzo di condizionamento con diversi programmi di allenamento e stratagemmi vari, esempio con un tabata a intervalli intensivi, lavori pre-impostati e/o continuativi etc etc, tutti sistemi che garantiscono al fighter uno stress e quindi una risposta data da un adattamento. Ma ciò avviene solo se programmato con attenzione. Per farlo ad hoc sono anche disponibili strumenti accessori come i contacolpi che servono a monitorare il volume di colpi sferrati (i classici che tiene il maestro e clicca ad ogni pugno sferrato o addirittura alcuni con batteria da applicare sui guantoni che li contano da sè ad ogni impatto). Si possono poi utilizzare, in maniera complementare o a sé stante, strumenti come cardiofrequenzimentri o lattacidometri per monitorare in termini fisiologici i progressi dell’atleta.
B) In alternativa il sacco può essere anche un mezzo per consentire la correzione motoria e lo studio delle tecniche, magari affini ad una particolare strategia o tattica da usare in un combattimento che stiamo preparando, oppure per colmare delle carenze nell’atleta sottoposto a prescindere da un evento in particolare.
Esempi? Esercitazioni su variazioni di angolatura, misura e distanza oppure correzione di traiettorie dei colpi. Un lavoro complesso che quando è eseguito in gruppo non può essere fatto ai ben più mirati focus, per i quali è tuttavia necessario lavorare con un tecnico ed un allievo solamente (seduta specifica sul soggetto).
Ma questo tipo di utilizzo, va detto, richiede due importanti fattori detti feedback (informazioni di ritorno): quello estrinseco, ovvero la correzione del tecnico, che arriva quindi dall’esterno; e quello intrinseco, dato dalla capacità dell’atleta di percepire dove sbaglia, che arriva dall’interno. Il primo è molto utile ma non necessario quanto il secondo, che viene quasi sempre su indicazione del primo, ma necessita sempre di un passaggio interiore per essere messo poi in pratica nell’automatizzazione del gesto.
Il sacco può anche essere utilizzato per la cosiddetta pratica di routine, che è la più comune, ma se l’utilizzo non è mirato come seduta specifica ed è troppo generico, rischia di fare danni. Infatti, se la sessione non è concepita come seduta di scarico o di relax psichico (mi sparo quattro riprese al sacco per liberarmi, oppure ripasso delle tecniche e gigioneggio per “scaricare” fisicamente e psichicamente), alla lunga a mio modo di vedere può divenire altrettanto deleteria quanto la corsa lunga fatta in loop.
Nella pratica massificata il sacco porta con se una serie di insidie che creano “vizi”, ovvero quelli che il buon Ado Gruzza chiamerebbe “compensi tecnici” e che io invece da sempre definisco “obbrobri architettonici” (perfetti sistemi di compensazione di pigrizia e/o carenze).
Il primo fattore è la precisione dei colpi. Non è difficile infatti vedere colpi al viso che hanno la traiettoria funzionale solo ad uccidere un puffo ed altri che dovrebbero essere indirizzati al corpo, che sono sferrati ipotizzando un soggetto che ha il fegato situato sotto l’ascella destra. Questo sistema che i soggetti si creano, mira ad economizzare il gesto e semplificare uno schema motorio complesso per raggiungere un bersaglio definito (magari il fegato) sostituendolo con uno che il sacco – largo ed alto – rende personalizzabile.
Quando mi succede, in genere, porto il ragazzo fino a sbattere con la faccia sul sacco (delle volte gliela spiaccico sinceramente, ma è sadismo post-sovietico) e gli mostro dove ha colpito; poi gli ricordo che un colpo a bersaglio ha un tot di probabilità di andare a segno, e uno che non è a bersaglio invece ne ha 0, perché a prescindere è sbagliato. Tempo ed energia sprecata. Tutto da punire severamente (al di là delle battute nessuno vi ascolterà troppo… mi succede anche negli stage).
Per quanto questo possa sembrare secondario, a mio avviso è invece assai primario. Gli schemi motori che gli atleti compongono, come automatismi, nella loro evoluzione, difficilmente poi si modificano, se non previa una tortura correttiva ed una volontà del soggetto che significa “tornare indietro”. Ma ogni bersaglio, che sia al corpo (fegato, milza, plesso solare) o al viso (mento o tempia), ha un centro esatto se vogliamo realmente colpire e fare danno. Nulla viene a caso e il concetto si capisce perfettamente osservando bene questo famoso montante di Hatton con il quale liquidò Castillo. Non basta colpire un saccone nella sua metà per imparare a demolire un combattente. I colpi, lo ripeto nelle lezioni e negli stage, sono traiettorie, se queste sono errate, si sbaglia a prescindere.
Altro problema relativo all’utilizzo massificato del sacco è la distanza. Il 90% degli atleti difatti si posiziona ad una distanza di comodo, ovvero nel punto nel quale basta semplicemente distendere il braccio per andare a segno. Come dice Lorenzo, nei combattimenti i colpi vanno a segno sempre con una percentuale ridotta di oltre la metà rispetto a quelli sferrati (qui, per inciso, allenarsi al fallimento ed al ritorno è altrettanto necessario, ma ci arriverò dopo). Buona parte di questi colpi che non vanno a segno falliscono perché l’avversario, che non è un saccone, si sposta indietro (spesso) oppure di lato (raramente, quelli bravi). Gran parte di questi errori possono essere frutto della mancanza, nello schema motorio complesso che compone il colpo, della capacità del soggetto di variare la distanza senza scomporsi. Indico sempre questa necessità – spostarsi e non colpire da fermi – mentre i ragazzi si scaldano e fanno il banalissimo vuoto, nel quale spesso e volentieri (sempre) si idealizzano bersagli a portata di tiro. Quindi è una necessità continua, di chi corregge quanto di chi esegue, obbligare ed obbligarsi a non dare per scontato che un avversario – e non un saccone – difficilmente ci permetterà di entrare comodamente a misura senza pagar dazio.
Il sacco rimane dove è, al massimo oscilla ma ritorna sempre. Non si scappa. Anche un sacco cosiddetto “veloce”, cioè piccolo e leggero, che molti credono più mobile, a meno che non sia ancorato tanto in alto da avere un’oscillazione ampia che simula uno slittamento, è sempre comunque un pendolo. Ponendosi quindi nella parte centrale dell’oscillazione (ciò che tutti fanno), si ha la certezza che torna sempre, ed in brevissimo tempo, nel punto nel quale lo abbiamo colpito. Diviene quindi solo una questione di tempo e direi un compito molto facile, se non per un neofita.
Quindi, la massificazione della pratica del sacco, senza questi accorgimenti, rischia di facilitare un compito che nella pratica oggettiva è assai più complesso ed è richiesto in un combattimento. Perché la capacità di percepire, mantenere e gestire la misura è una parte fondamentale del combattente, perché è l’asse sul quale si basa la capacità di colpire, e senza una gestione ottimale di essa, il rischio è finire lunghi e scomporsi facilmente. Per i soggetti normali, oserei quasi dire per gli “umani”, è molto deleterio abituarsi a colpire facilmente e il fallimento del bersaglio sottopone a veri rischi. Una regola nella quale si possono includere una alta percentuale di combattenti, per i “fenomeni” invece non è un problema, ma questi si contano sulle dita ed osservarli o imitarli, come ho già detto in altre pubblicazioni, può fare molto danno.
Perché allenarsi al fallimento è una necessità con la quale dobbiamo fare i conti.
Una volta durante una lezione di sparring condizionato, in uno stage, dove un ragazzo doveva lanciare il diretto sinistro e l’altro schivare e rientrare, chiesi secondo loro chi dei due si stava davvero allenando. Mi risposero entrambi “quello che schiva e rientra con un colpo”. Errore grossolano. Allenarsi al fallimento è non solo necessario, è importante, basilare. Perché è un’esperienza con la quale si fanno subito i conti, anzi per la maggiore dei casi, con cui dobbiamo imparare a raffrontarci.
Quindi il sacco è e rimane importante, fondamentale, ma attenzione a farlo e farlo fare come se piovesse, quantomeno senza la presa di coscienza che non simula un avversario ma semmai lo semplifica per fornire un bersaglio sempre a portata di mano.
Fisiologicamente poi, avrei anche da disquisire, ma sono delle supposizioni che non hanno riscontri scientifici portati da studi, ma solo percezioni date da qualche decina di anni di esperienza. Credo che la pratica massificata delle routine, anche a livello di risposta sistemica, rischia di appiattire le variazioni continue ed i picchi che fanno parte di una prestazione sul ring, sul tatami o nelle gabbie. Al sacco, pur quanto ritmo si fa, in soldoni, lo si fa per scelta. Sul ring chi più ne ha detta le regole del ritmo, nella sostanza fa grande differenza.
3 – la palla tesa o double end ball.
Attrezzo molto utilizzato in sud America, ancorato al soffitto ed a terra con corde ed elastici che gli permettono spostamenti rapidi e continui. Disponibile in varie forme e misure, persino piccolo come una pallina da tennis. Tecnicamente indicato – da nome – per le serie a due mani, anche se è molto usato anche in maniera non sempre continua.
Indubbiamente può migliorare i riflessi, e soprattutto il timing di attivazione della partenza dei colpi, poi, a differenza del sacco, obbliga ad effettuare movimenti del busto o bloccaggi, prima che, colpito con forza, torni diretto in faccia al sottoposto. Inoltre obbliga a tenere di conto dell’esigenza di controllare il ritorno e non “lasciare le mani dentro al bersaglio”, gergo tecnico per dire che ti curi solo di andare ma non di tornare. Poi che si eccede nell’allungare i tempi di contatto col bersaglio.
È un attrezzo comunque importante per rompere la routine e rifinire la tecnica, seppur va sempre ricordato che l’utilizzo massificato porta ad apprendere dei meccanismi che sono propri dell’attrezzo e non della pratica del combattimento in sé. Difatti se a primo impatto colpire il bersaglio in movimento continuo, dato dagli elastici, porta un certo disagio, man a mano che lo si utilizza si automatizzano tempistiche e movimenti, e colpire diviene man a mano fattibile anche ad occhi chiusi perché un elastico non si muove in maniera irrazionale come una testa me oscilla a seconda di come viene colpito. Ed anche se le capacità cognitive non ce lo dicono, il corpo lo impara presto.
Avendone a disposizione diversi, di diverse misure e con diverse tensioni, si può vedere come il passaggio da uno all’altro cambia in maniera molto sostanziale la nostra capacità di inquadrare colpire automaticamente il bersaglio, a comprova di quanto detto sopra.
Più che mai in questo tipo di oggetto, la distanza viene poco curata, perché lo si utilizza tassativamente dalla cosiddetta “mezza misura”, quindi senza grosse possibilità di variazione. Altro problema che può incombere, correlato, con una massificazione dell’utilizzo, è il “vizio” di non estendere completamente le braccia per velocizzare gli scambi e non curare il ritorno del colpo tendendo ad abbassare la traiettoria di ritorno per non intralciare nel ritorno dello strumento.
Rimane ad ogni modo un eccellente mezzo per stimolare e automatizzare delle risposte immediate (schivare e rientrare), seppur in molte palestre, spesso purtroppo manca.
Una versione alternativa è fornita da una palla da tennis che è ancorata ad una fascia da mettere intorno alla fronte, questa, colpendola, rimbalza e torna verso la faccia, obbligando a colpirla per allontanarla. Ovviamente non sono possibili spostamenti, ed è una slkills diversa, ma in una certa misura laddove non si ha un “double end ball” può essere un’alternativa.
Fine prima parte

mangusta77
Lenny Bottai - Livorno 1977.
Pugile professionista in attività.
Camp. Internazionale IBO 2009
Camp. italiano 2010
Camp. Internazionale IBF 2011
Camp. Del mediterraneo Wbc 2012
Camp. intercontinentale IBF 2014
Semifinalista mondiale pesi superwelter professionisti 2014
Campione d'Italia 2016
Tecnico Fpi di pugilato. Preparatore atletico per SDC
Collaboratore gruppo docenti Uipasc (unione italiani preparatori sport da combattimento).
