Allenamento della forza negli Sport da Combattimento: tra principi, miti e realtà - Rawtraining
di lenny bottai
Premessa
Chi parla, sia chiaro e venga sottolineato, è assolutamente un microbo nel mondo dei sovraccarichi… non è il mio campo e non voglio farlo sembrare tale, ma proprio per questo voglio fornire indicazioni oggettive a chi opera negli SDC da un punto di vista interno e specifico. Questo infatti è decisamente il mio campo, come atleta ed allenatore da diversi anni. Spero quindi che questo articolo risulti accessibile e stimoli al passo successivo necessario (non ho nessuna intenzione di scrivere una sorta di bignami…questo vuole essere solo un punto di partenza).
Questo pezzo, quindi, ha il solo obiettivo di offrire un input per andare oltre, un messaggio che sia comprensibile e vicino alle esigenze dello sport e dell’ambiente che conosco. Magari risulterà utile proprio perché assemblato con un linguaggio forse meno specifico e tecnico, ma maggiormente fruibile nella forma.
Perché a mio avviso, alcune difficoltà o punti di vista legati al nostro ambiente, alla stesura dei programmi ed alla logistica, alla cultura ed all’approccio alle metodologie di allenamento, non possono essere minimamente immaginabili da chi magari si intende del suo mestiere, i sovraccarichi, ma non conosce la relazione di quest’ultimi con il complicato mondo degli SDC, dove l’inflazione dell’interesse verso questo tipo di allenamenti, sta creando probabilmente un po’ di confusione.
Tanti sono gli atleti ai quali viene negata una conoscenza di base, una cultura sportiva che è patrimonio di tutti e con la quale ci dobbiamo confrontare per poter crescere. Mentre scrivevo questo pezzo, ad esempio, sono stato contattato da un ragazzo che, su indicazione del suo allenatore, svolge l’allenamento per il “potenziamento” sempre e solo tramite esercizi con il bilanciere senza alcun carico. Appare ovvio quindi, che un input base, può essere un mezzo per andare oltre, superando la diffusione di vere e proprie allucinazioni in merito ai termini, forza, potenziamento, pesi etc. etc. che spesso caratterizzano discipline che non siano quelle specifiche della forza.
Molto probabilmente, c’è chi avrebbe potuto scrivere (o lo ha fatto) parte di queste stesse cose in maniera più tecnica e precisa, essendo magari un professionista proprio nel campo dell’allenamento con i sovraccarichi; ciononostante provenendo da un altro mondo avrebbe potuto ignorare gli aspetti che caratterizzano la premessa centrale (la condizione che crea l’esigenza e deve spingere a chiedere di più da questo allenamento) e magari, parlando più tecnicamente, avrebbe potuto scoraggiare chi non è abituato a confrontarsi su un piano che presuppone una cultura sportiva di base che spesso manca.
In tutta onestà.
Partiamo da un presupposto, fino ad almeno vent’anni fa parlare di pesi negli sport da combattimento nel nostro paese era una vera bestemmia. I combattenti, al massimo spinti da qualche film di Rocky o di Bruce Lee, si dilettavano per lo più a fine allenamento in qualche trazione alla sbarra oppure in serie di piegamenti sulle braccia, per una credenza mistica secondo la quale pompare decine di questi per il muscolo fosse completamente diverso rispetto all’eseguire qualche esercizio similare con i pesi secondo la quale pompare decine di piegamenti per il muscolo fosse completamente diverso rispetto all’eseguire qualche esercizio con i pesi.
Ad influenzare negativamente la percezione dell’allenamento per la forza sarà stato il boom del bodybuilding e dell’ipertrofia forzata, o forse la diffusione di immagini che ritraevano soggetti gommati che facevano impensierire gli allenatori “old stile”, i quali vedevano minata la capacità di colpire anche il sacco pesante. Saranno stati questi fattori ma opinioni e legittimità a parte, di prendere un bilanciere in mano negli SDC non se ne parlava proprio, in quanto rappresentava un vero tabù, nonostante le scienze del movimento già suggerissero il contrario.
Moltissimi ricercatori ed allenatori nei paesi del blocco dell’est infatti, già trenta o quaranta anni fa nei loro programmi lavoravano su concetti importantissimi per lo sviluppo ed il mantenimento della forza in tutte le sue forme in tutte le discipline, anche quelle appunto dove era richiesta la massima velocità o rapidità.
Oggi, come in ogni era di grandi cambiamenti, atteso il terzo millennio anche gli SDC nostrani sono stati finalmente contagiati dalla cultura sportiva che comprende “tutto”, e quindi non solo quanto sempre fatto di specifico ed importante nella fatiscente palestra intrisa di sudore e sangue.
Siamo arrivati così man a mano a concepire anche noi come normale che un atleta impegnato in una disciplina X, che non sia necessariamente il powerlifting, dedichi parte del suo allenamento alla forza, magari proprio con quel bilanciere che finalmente non sembra più mordere come il pitbull tozzo e minaccioso del vicino di casa.
Sebbene il dilagare dell’utilizzo dei sovraccarichi sia certamente un aspetto positivo, da buoni occidentali, oltre ad essere arrivati alla “torta” in ritardo, abbiamo anche preso dagli insegnamenti di questi illustri ricercatori, prodotto di conoscenza ed accurata ricerca e riscontro nei numeri, poco dell’essenza e molto della forma.
Nella boxe ad esempio, sono gli stessi vertici nazionali ad incentivare l’utilizzo dei sovraccarichi per scacciare le vecchie paure della lentezza e dell’ipertrofia (finalmente!) tuttavia si prescrivono spesso esercizi come medicine, quindi senza spiegare troppo come devono essere programmati e nemmeno eseguiti. Come dire “intanto fate” che è sempre meglio di “non fare”.
In molti casi difatti, assistiamo ad allenamenti che non sono prodotto di specifiche scuole di pensiero, in funzione di un concetto o un programma, ma solo disperati tentativi di emulazione o semplificazione, magari praticati con la vaga speranza che il solo “fare” produca qualcosa. Il conto è presto fatto dato che molto spesso si assiste ad una semplice conversione di quello che si faceva prima: ieri si eseguiva un 3 x 10 alla sbarra, oggi, quando va bene, si prescrive un 4 x 4 in sala pesi all’80%. Il tutto finisce lì, come se la programmazione, la metodica e le tecniche, che in chi lavora coi sovraccarichi sono maniacali, passino in secondo piano, come se fossero un elemento di importanza trascurabile.
Questa poca cultura e relazione tra mezzo, metodo e programma crea confusione, miti e mode (anche mostri).
L’approssimazione è una malattia devastante. Internet fa il resto, lo abbiamo imparato negli anni con le mode comparse come funghi e alimentate da miti.
Il contagio attraverso un video di youtube del campione tizio che gira una ruota di un camion o usa una mazza su di un copertone e una maschera antigas, oppure agita un paio di spesse corde da ormeggio, in passato ha dato a qualcuno la speranza che il solo utilizzare questi mezzi “nuovi” potesse garantire quello che invece solo un concetto ben ponderato può offrire.
Ed allora, giù tutti a rotolare copertoni come non lo fanno nemmeno alla Iveco e ad allenarsi in maschera antigas come i marines in assalto al golfo persico, oppure maneggiando ormeggi da porto come marinai marsigliesi.
Qui la fortuna dei “venditori di fumo” secondo i quali grazie alle kettlebell, o al lavoro funzionale o al crossfit, era possibile risolvere ogni richiesta di un fighter che non trovava risposte nei metodi classici. Questi miti hanno figliato nei portafogli di chi ha allestito corsi e certificazioni a pagamento, nei quali in un fine settimana, non solo imparavi tu qualcosa di nuovo da sperimentare, ma avevi direttamente il tesserino per insegnare agli altri quello che fino al giorno prima dovevi ancora imparare.
Per non parlare degli innumerevoli insegnanti che, spinti dalla chimera di migliorare questa qualità, hanno affidato i loro atleti a guru di questa o quella disciplina magica con la speranza di trovarsi tra le mani una batteria di Pacman pensando di aver trovato il nuovo Ariza.
Sia chiaro, ogni allenamento ha il suo perché ed indubbiamente il suo valore, lungi da me giudicare alcune pratiche (anzi…) ma il problema è proprio capire questo, valorizzare il concetto che le anima e non il mezzo in se, quindi non pensare di aver trovato con una nuova attività o un nuovo attrezzo, magari perché spinti dalla moda, la chiave di volta dell’allenamento per risolvere ogni quesito annoso.
Un bilanciere olimpico, qualche plinto, una palla medica, bastano ed avanzano con buona coscienza e cultura per sviluppare esercitazioni che sono in grado di rispondere alle esigenze più importanti di atleti dilettanti e professionisti. Se poi ci sono nuovi mezzi, nuove pratiche, purché eseguite e programmate ad arte e con cognizione, è solo un bene poter aumentare il background di un insegnante e di un atleta. Ma partiamo almeno dal classico prima di esplorare chissà cosa, altrimenti ci ritroveremo un giorno con un atleta che compie evoluzioni con la mazza ferrata e la maschera antigas, si appende ovunque come una bandiera, ma non riesce a fare un’alzata decente.
Quello che compone la validità e la riuscita di un allenamento, il suo fulcro, è il programma e il concetto che lo anima, componente da integrare negli SDC sempre considerando la benedetta soggettività e le possibilità tecniche, fisiche e logistiche degli atleti sui quali lavoriamo.
Il solo “fare” a pappagallo produce assai poco, non esiste mezzo magico.
Il primo step è indubbiamente quello di creare un background motorio, quindi semplicemente imparare
La prima cosa da inserire per quanto riguarda i lavori con i sovraccarichi sono indubbiamente i semplici lavori di base con carichi non troppo elevati, i cosiddetti entry level, che possono consentire agli atleti sottoposti di imparare almeno decentemente gli schemi motori delle alzate.
Naturalmente parliamo di esercizi multiarticolari con bilancieri e non lavori svolti con l’ausilio di macchinari che richiedono certamente poche abilità motorie per essere utilizzati. Proprio la complessità del gesto motorio e la necessità di costruire i necessari schemi a livello neurale costituiscono infatti il principale stimolo per l’apprendimento e quindi per la crescita dell’atleta.
Quando iniziamo a sollevare dei carichi, specialmente liberi, prima di tutto insegnano al nostro corpo come usare la nostra forza, questo è il concetto primario. Da qui il progresso iniziale che si riscontra, che non è dato dal semplice aumento di forza come si potrebbe pensare da profani, ma bensì dalla capacità di imparare a coordinare ed esprimere una forza che già possediamo e di economizzare il dispendio di energia nei gesti.
Tutto ciò con una buona cultura sembra scontato ma non lo è in realtà. Il dilagare dei lavori di forza negli SDC, la questione delle alte percentuali di carico, dell’attivazione dell’SNC e quindi dello stimolo ottenuto grazie a livelli di intensità molto alti, hanno già mietuto centinaia di vittime che hanno forse troppo velocemente saltato questo passaggio doveroso e assolutamente indispensabile per un noviziato.
Bisogna tener conto che lavori con carichi importanti hanno poco senso se l’atleta in questione non sa ancora gestire gli schemi motori e il carico. Anche perché sono veramente pochi i fortunati che riescono a far seguire gli atleti da persone competenti in materia. Quindi i miglioramenti non sono così fulminei come si possa pensare. Ascoltando bene chi con la forza ci lavora, si capisce come il carico deve essere incrementato in base alla qualità dell’alzata, altrimenti si può far peggio che meglio. Figuriamoci quando non è il nostro sport.
I più sono autodidatti o peggio affidano gli atleti a qualche “personal” fisicato della sezione pesi del centro Fitness della porta accanto, il quale, magari dopo una settimana di panca piana fatta rigorosamente con i piedi sollevati o di squat al multipower, li convince a provare i massimali e la questione di poterci capire e ricavare oggettivamente qualcosa finisce proprio in quel momento.
Costruzione fisica di un atleta che deve gestire il peso, aspetto da non tralasciare
Il semplice lavoro entry level, rappresenta per gli atleti più acerbi la strada migliore per una corretta costruzione muscolare e strutturale del fisico. Per molti anni questo aspetto non è stato affatto valutato (lo so… in alcune favelas sportive ancora non lo è, non giriamo il dito nella piaga…) tuttavia, in uno sport dove la categoria di peso è fondamentale, avere una buona costruzione fisica, quindi una predominanza della massa magra, è il mezzo migliore per militare nella categoria che più conviene ed anche di soffrire meno per raggiungerlo.
Per anni siamo stati abituati a vedere un soggetto ed imporgli di ridurre il peso, scendere di una categoria minimo prima di combattere, senza valutare magari una carenza strutturale che comporta poi anche una cattiva tenuta dei carichi di allenamento. Magari tutto ciò avveniva asfissiando il soggetto con diete impossibili prima di pensare a potenziare le strutture carenti e ad ottenere risultati in termini di resa fisica.
Tutti ormai sappiamo che la massa magra, se ci alleniamo in maniera naturale e complementare con i pesi, viene costruita lentamente, funzionalmente ed a fatica, soprattutto se in parallelo ci si allena per uno sport costantemente ad alta intensità come avviene negli SDC. Per questo motivo quindi dovrebbe ormai essere chiaro che non si corre il rischio di diventare McRobert in due mesi di carichi gestibili.
Scrivo questo perché l’ossessiva paranoia dell’ipertrofia è ancora assai diffusa in diversi ambienti sportivi.
A dire il vero, Falcinelli ci aveva provato nel suo testo sull’allenamento dei pugili tanti anni fa a parlare del bodybuilding come mezzo per costruire fisicamente un boxeur, tuttavia evidentemente è stato poco compreso.
L’ossessione di ritrovarsi in pochi mesi un combattente ipertrofico come uno strongman prevale anche sulle ragioni scientifiche, anche quando si osservano in TV combattenti internazionali che mostrano palesi segni di costruzione fisica, di certo non indotta dal solo allenamento specifico.
Ma per molti, aprire un libro è noioso e porta via tempo, prendere un esperto e farsi affiancare è costoso, lasciare questo ruolo a qualche collaboratore che magari si specializza toglierebbe autorità. Forse iniziare a concepire una diversa condivisione all’interno delle società sportive, con annessi ruoli, potrebbe essere la chiave, dal momento che in molte federazioni e discipline di SDC non è neppure contemplato il ruolo di preparatore atletico.
Se la collaborazione poi non piace, almeno imparare dai testi potrebbe essere la soluzione, se poi è la carta a fare allergia, si può provare con gli e-book.
Secondo Step scegliere una programmazione ed un concetto su cui lavorare e seguirla
Scelto quindi un decente programma di base che possa insegnare ai ragazzi come eseguire determinati esercizi, aumentando quindi il loro background sportivo (invitarli ad osservare un po’ di video di discipline di potenza non farebbe male, anche per cultura sportiva…), si può passare ad analizzare le diverse teorie secondo le quali un’importante capacità come la forza può essere condizionata e migliorata.
In questo campo, diverse scuole di pensiero si contrappongono in quello che è il fulcro vero della questione, ovvero il concetto sul quale il programma di forza si basa e si relaziona al resto degli allenamenti. Perché la prima e più grande complessità delle nostre discipline è proprio relazionare questa parte del programma con il resto dell’allenamento specifico che è spesso anche molto intenso. Ovviamente, si ricorda che per buona norma teorica ogni ciclo o blocco di allenamento deve puntare a migliorare un aspetto per volta, è una regola basilare di qualsiasi programma sportivo, ma è anche vero che deve mirare a non dimenticare e mantenere le altre qualità richieste in gara. Un puzzle complicato, e per certi versi è il gioco della coperta corta, che o lascia fuori la testa o i piedi.
Chi si allena per fare forza, difficilmente si consuma in ore di allenamenti anaerobici o aerobici. Questa è la prima cosa da imparare per non illudersi troppo, nessuno diventerà Lu Xiaojun (resteremo aimé uomini normali…).
Nella scelta di una metodologia, niente può essere improvvisato, delegato ad una rapida lettura su internet o ad un consiglio fugace di qualche collega, anche se illustre, altrimenti si farà più confusione che altro.
So che per qualcuno sembrerà banale, ma mi viene in mente quell’allenatore con cui parlai tempo fa che mi disse che faceva fare i pesi ai ragazzi in un certo modo, quando gli chiesi come mai, mi rispose che il famoso allenatore “tizio” (ometto nomi per non incappare in querele…) gli aveva spiegato che “hanno scoperto che non esiste più forza veloce, forza massimale e forza esplosiva… ma migliorando la forza ‘forte’ si migliora tutto”. E questa “grande e rivoluzionaria” teoria la spacciava con orgoglio a chiunque. Anche a cena con altri allenatori, alcuni dei quali magari credendogli avranno poi stilato un programma di forza ‘forte’ ai loro atleti.
Sconcertante, ma siamo a questo livello di confusione. Semplicemente perché da buoni italiani, spesso e volentieri, amiamo prendere le scorciatoie proprio come nelle file alle casse dei supermercati, alla posta o in banca, incrementando il reddito dei produttori di distributori di numeri che compaiono ovunque. Questo atteggiamento spesso porta al paradosso per cui la più grande cazzata se accessibile e facile, fa presto proseliti e viene provata da tutti.
C’è un detto in Europa che spiega questo concetto: “quando un inglese o un tedesco non sanno fare una cosa, non la fanno e magari non lo ammettono, un italiano invece è talmente disinvolto che lo puoi vedere mentre la insegna tranquillamente agli altri”. Siamo veri e propri artisti dell’improvvisazione. È un pregio caratteriale quanto un difetto mortale se estremizzato. Un tratto somatico nazionale che è stato la fortuna di chi ha campato su questa parodia.
Inciso doveroso, imparare ed applicare, sul campo e non solo sui libri
Il tutto non si deve però tradurre nella creazione della patologia “del libro”, male che si contrappone al vivere solo in base alla propria esperienza, alla tradizione o al sentito dire. Con questo faccio riferimento a coloro che divorano cinque testi di 700 pagine in un mese “illuminandosi” e pensando di aver compreso tutto grazie alle nozioni lette, malgrado non abbiamo mai sperimentato quest’ultime nei fatti e quindi non abbiano la minima idea di quale sia la complessità di applicare tali concetti agli atleti.
Ogni teoria va ponderata, sperimentata e contestualizzata. Se si ha poco materiale umano, difficilmente si comprendono le differenze che compongono la fattibilità di questa o quella metodologia. Non va dimenticato difatti che esercitazioni sofisticate potrebbero non portare grande risultato a soggetti che ancora non sanno rispondere a lavori di qualità, ed anche se gli SDC sono sport individuali, spesso si allena per ovvia esigenza in gruppo, quindi ci dobbiamo ricordare e ripetere come un mantra che la stessa medicina non può funzionare per tutti, anche quando il gruppo (cosa rara) è abbastanza livellato.
Se poi si allena rispettabili amatori che sfogano il dopo lavoro in palestra, difficilmente gli si potranno applicare le pliometrie di Yashchenko ottenendo gli stessi risultati (lo so… qualcuno aveva pensato il contrario… che allenando ad hoc la cassiera della Conad vicina l’avrebbe portata a competere con la May).
La sola logistica potrebbe infatti farci scoprire che il compito più difficile per un allenatore è proprio contestualizzare le esigenze di un atleta con il programma scelto, crescendo di pari passo, senza fretta, insieme ad esso. Le teorie sono importanti quanto le applicazioni ed i riscontri oggettivi che se ne ricavano.
Mi viene in mente in un recente articolo il commento di un noto allenatore italiano di powerlifting, il quale commentando alcuni “noti” autori presi in considerazione nella sua disciplina, ricordava che alcuni di questi formulassero delle belle teorie da leggere, senza che avessero però mai allenato e prodotto risultati con nessun atleta. Curioso…
Oppure quel caro amico allenatore, il quale ad un ottimo seppur discontinuo atleta, dopo una lettura di un “testo sacro” organizzò (forse) il primo programma serio in anni di agonismo, basato su 10 sedute settimanali. Il ragazzo, facendo anche l’operaio nel frattempo, alzò bandiera bianca e si dette alla cosiddetta ippica dopo dieci giorni.
Avessimo tutti sottomano gruppi sportivi costituiti da soggetti pagati per essere solo atleti sarebbe ben diverso, purtroppo nella vita di tutti i giorni si deve fare conti con tempo e logistica, nessun dream team ha mai incontrato questi problemi.
Per comprendere appunto la complessità insita nella scelta di un programma di forza da intraprendere, che si deve basare prima di tutto sulla soggettività e sulle esigenze cucite addosso ad un atleta, mi limiterò ad abbozzare alcuni importanti pensieri e metodologie che si basano su diversi schemi temporali e metodiche, in alcuni casi addirittura in contrasto tra loro.
Si tenga presente che tutti questi metodi hanno garantito successi a numerosi atleti e tutti sono stati fallimentari per altri. Per questo motivo, lo ribadisco, andare a caso o senza conoscenza conviene quanto allenare i riflessi attraversando l’Aurelia bendati nelle ore di punta del traffico.
Solo al fine di comprendere quanto serva addentrarsi nei concetti, che non ho la presunzione di poter spiegare ma solo di abbozzare, elencherò alcuni di questi personalmente sperimentati e per i quali vi rimanderò direttamente ai testi ed agli autori in causa, che meritano un assoluto approfondimento. Questo può funzionare come uno stimolo, quasi come fosse l’indice di un grande libro, perché ognuno di questi concetti ha valore se analizzato e studiato approfonditamente leggendo i testi di riferimento.
Alcuni concetti importanti con eventuali applicazioni logistiche nella programmazione:
Zatsiorky e il deficit di forza esplosiva. Un concetto importante da valutare
L’autore russo, Zatsiorsky, illustra questo concetto nel suo “Scienza e pratica dell’allenamento della forza”, mettendo in relazione la necessità di sviluppare forza massimale tra un lanciatore di giavellotto ed un atleta impegnato nel getto del peso.
I due attrezzi hanno un peso specifico assolutamente diverso (qualche etto il primo, diversi Kg il secondo) quindi, rilevando che il tempo di contatto con l’oggetto e una velocità del gesto sono assai diversi, si deduce che è richiesta una diversa percentuale di forza massimale e abilità motoria.
Ne consegue la creazione di un parametro di percentuale che presenta valori diversi e che porta a una diversa periodizzazione dell’allenamento della forza per i due atleti. Per il lanciatore di giavellotto si evidenzia una necessità di allenare il “tasso di sviluppo di forza”, ovvero una maggiore capacità di generare forza nel minor tempo possibile, quindi un più specifico training di coordinazione e potenza.
Si illustra una precisa relazione parametrica tra forza e velocità, secondo la quale la capacità di un atleta rispetto ad un altro di lanciare un oggetto peso (ad esempio di qualche Kg) più lontano non è necessariamente relazionata direttamente alla stessa capacità di lanciare invece un oggetto assai più leggero. Altrimenti basterebbe allenare un lanciatore con un peso maggiore per raggiungere il risultato cercato (Kusnezov, altro ricercatore, difatti ci ricorda che la variazione del 5% sul carico specifico rende il gesto aspecifico, motivo per il quale risulta inutile aggiungere troppo carico ai gesti specifici).
Proprio in questo caso quindi, ovvero quando il gesto di gara è estremamente rapido e non trova un’importante resistenza, allenare la capacità di produrre velocemente la forza ed imprimere rapidamente una velocità, per Zatsiorsky diviene primario più dell’allenamento per la forza massimale, che tuttavia va curata sempre come base.
Verchoshansky, Earl, la stimolazione e il metodo d’urto
Verchoshansky, altro autore russo, fautore della preparazione a blocchi, sottolinea la necessità di sequenzializzare il blocco della forza, che deve prevedere una fase successiva di trasformazione della forza sviluppata in forza esplosiva in modo da esaltare al massimo la capacità di generale forza veloce e potenza.
Denomina questa fase EARLT (effetto di allenamento ritardato a lungo termine) e fissa dei parametri ben precisi per sfruttare questo effetto con precise metodologie e rapporti temporali. Tali metodologie prevedono che prima avvenga un passaggio in un blocco di tecnica e velocità, mentre successivamente è necessario passare ad una fase di assoluta specificità.
In questa fase, l’atleta massimizza la qualità del suo gesto e lo esalta trasformando la capacità di generare forza massimale acquisita nel blocco precedente, magari in forma più generale, in quella di esprimere forza veloce e potenza in modo più specifico.
Logisticamente parlando nella preparazione di un atleta di SDC, questo approccio temporale si presta in maniera abbastanza ottimale alla stesura di un programma, nel quale spesso, la parte finale è indirizzata molto sulla specificità, quindi lavori di sparring e tecnici.
Un’accortezza dovuta però sarebbe quella, durante il blocco di EARLT, di non forzare troppo i carichi di allenamento per incentrare il passaggio temporale sulla qualità dei gesti e della risposta dell’atleta e non sulla quantità che può generare affaticamento. Alcuni lavori pesanti, inseriti in questa fase, infatti potrebbero ridurre il risultato di questo passaggio temporale sorretto da questa teoria.
Altra metodologia interessante illustrata da Verchoshansky e inseribile sempre in uno dei blocchi, è il metodo di stimolazione, che alterna nelle stesse serie oppure in una successione di esercizi, lavori ad alta percentuale di carico, con altri con carico minore ed enfasi nella velocità di movimento, oppure con lavori balistici semi-specifici o specifici quali balzi o lanci delle palle mediche, serie di colpi con manubri leggeri, colpitori, sacchi, etc. etc.
Questa teoria trova fondamento nel concetto della stimolazione del sistema nervoso e dell’attivazione motoria, la quale ottenuta con le ripetizioni ad alto carico, viene conseguentemente sfruttata ed enfatizzata nel gesto rapido o balistico o specifico. Di qui il termine stesso “metodo della stimolazione”.
Va ricordato (per non fare confusione) che a differenza del sistema definito “bulgaro”, “bulgaro misto” o a “contrasto”, Verchoshansky nel metodo della stimolazione implica delle precise pause di recupero tra le successioni.
Logisticamente il metodo della stimolazione può risultare ben realizzabile e coniugabile con qualsiasi altro tipo di lavoro tecnico. Questo lavoro, facilita anche una eventuale preparazione delle esercitazioni in gruppo, essendovi la necessità di recuperare bene tra un tipo di lavoro e l’altro. Anche questo è un lavoro che può essere fatto separatamente ma anche, per chi non ha possibilità di doppiare gli allenamenti, inserito in una sessione che poi prosegue sulla tecnica. Inoltre, se non esasperato, può essere protratto a differenza di altri, magari con un volume minore, fino a ridosso della stessa competizione.
Altra tecnica possibile, sempre illustrata da Verchoshansky, è quella dell’utilizzo del metodo d’urto, ovvero di esercizi che prevedono le due fasi di contrazione eccentrica/concentrica eseguiti in rapida successione, per favorire una maggiore produzione di forza grazie ad una reazione elastica indotta dall’inversione rapida.
Cadute da determinate altezze, con balzi o flessioni delle braccia, garantiscono un picco di impegno muscolare assai maggiore a qualsiasi contrazione volontaria ordinaria che comincia ad esempio dall’isometria.
Tuttavia queste esercitazioni, rappresentando un impegno importante per tendini, muscolatura e Snc, non possono essere improvvisate ma devono essere ben periodizzate e ponderate le altezze dalle quali effettuare le eventuali “cadute”, come illustrato nel testo sul “metodo d’urto”.
Dazio da pagare potrebbe essere non solo nessun miglioramento, ma addirittura un peggioramento della prestazione, lasciando alcune di queste esercitazioni tracce nei muscoli per diverso tempo.
Il metodo d’urto è spesso confuso con la pliometria, benché lo stesso Verchoshansky si sia più volte speso per spiegare come le due metodologie benché simili non siano la stessa cosa.
Difatti, nelle esercitazioni pliometriche, altra forma interessantissima di training usata tantissimo nell’atletica leggera, diviene fondamentale il Tuc (tempo di impatto) che ad esempio nei balzi deve essere ridotto al minimo indispensabile.
Logisticamente il metodo d’urto deve trovare, per il suo assoluto impegno fisico, un importante e ricorrente spazio più centrale durante la programmazione, quindi non deve terminare troppo a ridosso della competizione, in quanto come detto, lo stesso Verchoshansky indica dei precisi tempi entro i quali la programmazione deve terminare prima della competizione per ottenere un recupero completo.
Nella programmazione inoltre vanno ponderate ed inserite in crescendo le cadute da diverse altezze. Esercitazioni che avendo anche importanti tempi di recupero tra le serie, potrebbero richiedere sedute totalmente dedicate.
Simmons ed il metodo coniugato della WSB
Louie Simmons, preparatore della Westside Barbell famosissima fabbrica di atleti di potenza, spesso però tacciati di uso di steroidi, ha proposto il sistema coniugato che, pur ispirandosi a quello omonimo sovietico, si differenzia da esso nell’organizzazione del lavoro (lo stesso Verchoshansky ha tenuto a precisare non si basa sullo stesso principio non avendo sequenzialità ma essendo definibile “parallelo”). Il sistema coniugato di Simmons si pone l’obiettivo di sviluppare due qualità, quella di forza massimale e di dinamica, facendole crescere appunto in parallelo. Simmons suddivide il lavoro un Up and Low (parte alta e bassa del corpo) e in Dynamic e Max effort (seduta di forza massimale e dinamica). Ruota con precisione i due tipi di lavoro in quattro diverse sessioni separate da spazi temporali fissati nell’acro del ciclo di allenamento.
Nelle sessioni di Max, l’allenamento è incentrato su lavori di forza sviluppati attraverso esercizi base come squat e panca fino ad arrivare a percentuali altissime di carico, incentivando addirittura gli atleti ad arrivare al fallimento. Nelle sessioni dinamiche invece gli stessi esercizi vengono eseguiti con rom ridotto (panca con Board press o Box squat e stacco) in triple o doppie, adottando un tempo di recupero ridotto e un numero sempre più alto di serie, utilizzando carichi minori e strumenti come catene ed elastici per favorire l’accelerazione, che in tutte le esecuzioni va ricercata al massimo.
Alcune varianti di questo metodo modificano la distribuzione dell’allenamento all’interno del ciclo prevedendo per la parte dinamica una percentuale di lavoro maggiore rispetto a quella dedicata alla parte massimale (variando le sequenze tra le quattro sedute). Queste varianti sono state usate con grande successo da numerosi sport (anche di squadra) negli Usa per condizionare diversi atleti.
Logisticamente il metodo coniugato di Simmons, appare più semplice da inserire in un programma, dal momento che crescendo le due qualità in parallelo può essere anche più comoda da inserire in uno spazio temporale minore, inoltre riesce ad inserirsi con facilità nella logistica dell’allenamento fino quasi a ridosso della competizione. Tuttavia, essendo le sessioni di DE e ME Up e Down da compiere a precisi spazi temporali di distanza, ma in ogni caso in un complessivo di almeno 3 sedute per settimana, si necessita forse di realizzare a parte questo allenamento, per lasciare anche il debito spazio allo specifico, oppure di avere nei giorni dedicati, tanto tempo a disposizione, premesso che le sessioni potrebbero risultare troppo impegnative.
Altri autori importanti della forza, il concetto di stimolo, attivazione e buffer
Tantissimi altri illustri preparatori incentrano invece la stesura delle sessioni di forza su precise dinamiche di carico (Sheiko, Poliquin tra i più famosi in voga) all’interno delle quali vengono variate le percentuali e le ripetizioni con alti tempi di recupero, in pochi esercizi base nella stessa sessione, spesso la seduta prevede un “ramping” (crescite di carico lente) fino ad arrivare a doppie e singole vicine alle massime percentuali possibili.
Questi lavori, sono necessari come stimoli continui fino a ridosso delle gare, quindi non necessitano, per le teorie espresse, di essere seguiti da blocchi di trasformazione, ma sicuramente richiedono di mantenere separato il lavoro specifico.
Il concetto è indubbiamente interessante, e si basa principalmente sullo stimolo neuronale di attivazione motoria indotto da gesti di assoluta qualità, che avrebbero poi sull’atleta un transfer diretto nelle sue richieste motorie specifiche.
Molti di questi sistemi tuttavia, considerato l’elevato grado di stress per il SNC dovuto al tonnellaggio totale da spostare nel corso delle sessioni, vanno comunque proseguiti anche nella fase finale della preparazione, quindi nei periodi più a ridosso delle competizioni, ma, per favorire il restante programma di allenamento e non incappare in un affaticamento importante, con un buffer più alto, ovvero con un volume minore, spesso addirittura dimezzando le alzate possibili, rimanendo lontani dal cedimento. Sul concetto di Buffer sono state prodotte interessanti tabelle dall’ennesimo autore sovietico Alexander Sergei Prilepin.
Esiste poi un’autorevole scuola di pensiero in merito correlata a questi sistemi ed ai migliori lavori di forza per chi di questo si occupa, che considera addirittura prima della percentuale del carico e dello sforzo eseguito, la tecnica e l’esecuzione maniacale come primo mezzo di attivazione motoria.
Logisticamente questi metodi necessitano assolutamente di un approccio separato da quello utilizzato per il lavoro specifico e di una cura maniacale nella programmazione e nella supervisione della tecnica.
Dopo uno stimolo grande a carico del SNC a seguito di lavori massimali, il corpo necessita di un lasso di tempo importante prima di potersi dedicare magari a lavori specifici intensi. Il tutto rappresenta anche una questione di abitudine e sensazione dello stesso atleta, che diviene fondamentale.
Una volta capito questo, è probabile anche che proprio a ridosso della competizione, lo stesso atleta senta la voglia e la necessità di effettuare piccoli richiami stimolanti, i quali tuttavia debbono essere effettuati con un bassissimo volume e tempi di recupero importanti.
La complicazione di alcuni di questi lavori, è proprio che essendo concepiti per sport di forza, necessitano di sedute ben distribuite e di un’attenta supervisione.
Un ultimo inciso doveroso lo merita indubbiamente la metodologia di allenamento a circuito o circuit training. Questa pratica spinta sin dagli anni 70/80 ad oggi su moltissimi testi riferiti alla preparazione per SDC rappresenta indubbiamente una valida modalità di allenamento, soprattutto dal punto di vista energetico metabolico. Si tratta quindi di un efficiente metodo per sviluppare un condizionamento generale, oltre ad una discreta capacità di resistenza e resistenza alla forza o forza resistente. Tuttavia, anche se per qualcuno ciò è stato tradotto erroneamente in allenamento per la forza, per la potenza, o addirittura in contemporanea di entrambe (potendo prevedere le diverse stazioni esercizi che spaziano in un ampio range di tipologia di sforzo) non deve essere considerato come un reale e puro metodo per lo sviluppo di tali qualità, in quanto la quantità di lavoro necessaria nello svolgimento di una esercitazione a circuito è spesso in antitesi alla qualità che invece e richiesta e ricercata in tutti i metodi illustrati per lo sviluppo ed il raggiungimento di un picco nelle qualità in oggetto.
Per questo motivo, diciamo strutturale e concettuale, benché come detto la metodologia sia interessante ed utile, non può essere considerata tra le opzionabili per uno sviluppo della forza e della potenza.
Conclusioni
Appare ovvio, che per tutti i concetti brevemente elencati, frutto di ricerche ed esperienze di autorevoli allenatori e ricercatori, si necessita di una conoscenza approfondita, quindi della lettura di testi appositamente dedicati a questi aspetti.
Un sito ed un articolo, non possono e non devono delegare questa necessità. Semmai, come l’intento di questo articolo, invogliare a conoscere e sperimentare per condividere esperienza e cultura.
Chi regala tabelline o programmi, cosa che vedo spesso, a mio avviso ricerca solo click e pubblicità.
Resta il fatto che nella preparazione atletica di un combattente, la scelta di questi concetti può risultare importante per il risultato finale, ma come detto già, la forza è una capacità da allenare e condizionare esattamente come le altre. Soffermarsi troppo, come ignorarla, potrebbe essere una scelta poco intelligente e cosciente.
Quindi va anche detto e sottolineato, che per ottenere un buon transfer da questi lavori, è necessario porre l’attenzione sull’esecuzione delle tecniche di gara prima di tutto e del condizionamento poi.
Ottenere una buona coordinazione e lavorare su una corretta dinamica e biomeccanica dell’esecuzione delle tecniche di combattimento è la base da cui partire. Questo tra l’altro è un altro aspetto oggi poco curato e che spesso causa mugugni nella vecchia scuola (magari ne parleremo…): l’importanza di un’analisi scientifica delle esecuzioni da un punto di vista biomeccanico (angolature dei segmenti corporei nei colpi, partecipazione di più parti del corpo nelle accelerazioni…).
La sala pesi non potrà concedere niente che un’ossessiva ricerca della corretta esecuzione di una tecnica non possa garantire, ovviamente tutto in funzione della tattica e della strategia. Mai dimenticarlo.
Con questo, allenare la forza merita una conoscenza approfondita e non uno scimmiottamento figlio di qualche moda legata al fitness.
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mangusta77
Lenny Bottai - Livorno 1977.
Pugile professionista in attività.
Camp. Internazionale IBO 2009
Camp. italiano 2010
Camp. Internazionale IBF 2011
Camp. Del mediterraneo Wbc 2012
Camp. intercontinentale IBF 2014
Semifinalista mondiale pesi superwelter professionisti 2014
Campione d'Italia 2016
Tecnico Fpi di pugilato. Preparatore atletico per SDC
Collaboratore gruppo docenti Uipasc (unione italiani preparatori sport da combattimento).
Homemade Suspension Trainer 28 Aprile 2014
![Homemade Suspension Trainer Homemade Suspension Trainer](/images/copertine/homemade-suspension-trainer.jpg)
13 commenti
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Articolo davvero denso di concetti, sia a livello teorico sulle varie scuole di pensiero riguardo la preparazione atletica, sia anche sul classico armamentario di usi costumi tradizione e leggende metropolitane che persistono tenacemente nel variegato mondo degli Sport da Combattimento.
Lo ritengo un ottima summa di alcune tra le idee classiche sulla preparazione atletica di forza e potenza che il blocco sovietico ha partorito negli ultimi decenni, e che lo rendono ancora una sorta di eden per quanto riguarda questo genere di studi.
Se non altro dovrebbe darci l’idea, da un lato della estrema complessità delle idee e metodi riguardo lo sviluppo di queste capacità, e dall’altro della grande importanza che deve essere affidata alla messa in pratica e alla personalizzazione di queste idee.
Concludendo vorrei lanciare una riflessione. Considerando che tutti gli autori sopra citati hanno pensato e teorizzato le loro idee avendo sempre come riferimento alcuni sport specifici, quanto sono applicabili agli Sport da Combattimento?
Mi spiego meglio. Visto che tutti i testi sopra citati prendono come riferimento e si volgono agli sport dell’atletica leggera e pesante, sono trasferibili in toto negli SDC?
Quanto di essi è preparazione atletica generale e quanto è specifica per le loro discipline?
Non potrebbe esserci il rischio, sotto l’ombrello protettivo dell’”ipse dixit” di aristotelica memoria, di una mera e fedele copiatura di metodi che non sono efficaci od efficienti negli SDC?
Lorenzo Mosca
Ottimo articolo 😉
Provo a dire la mia riguardo al quesito sollevato da manipulus mosca. Io penso che l’ articolo non volesse incitare minimamente ad una mera e fedele copiatura ma tutt’altro… stimolare la ricerca di un giusto equilibro tra teoria ed esperienza sul campo, mantenendo un caposaldo: la forza si allena in modo aspecifico e con cura estrema della tecnica, altrimenti meglio lasciar perdere. Che poi per un combattente ci siano altri aspetti da considerare, forse anche più importanti, ok… che l’ allenamento specifico sia la cosa più importante è indiscusso… Però nel momento in cui il titolo è “allenamento della FORZA negli sdc”, mi sembra che , vista anche la premessa, l’argomentazione sia più che condivisibile.
Ciao anzitutto grazie per lo spunto interessante e per il commento positivo.
Ti vorrei però far notare, che sia Verchoshansky che Bompa, nei loro testi e nei loro programmi parlano sia di lotta che di pugilato. Ovviamente non di discipline più giovani almeno dal punto di vista non di nascita ma della diffusione. Tuttavia sono adattabili a queste.
Però è anche vero che quello che fai notare, cioè che per la maggior parte dei lavori è reale tappa aspecifica, quindi anche il feedback che ne possiamo e dobbiamo ricercare è aspecifico.
Secondo me bisogna partire dal presupposto che migliorare una qualsiasi qualità atletica in generale porta ad un miglioramento dell’atleta, quindi della prestazione.
Attenzione però, noi parliamo di prestazione dal punto di vista atletico, sul ring va la situazione, quindi la tattica e la strategia. Il rendimento atletico è valido solo se in funzione di questa.
Poi sulla forza va anche fatto un inciso doveroso, che è quello che riguarda il citato contrasto tra forza massimale e forza specifica o esplosiva. Diversi autori e diverse ricerche confermano che non sempre nel miglioramento di un gesto che richiede forza esplosiva sia direttamente collegabile un aumento di forza.
In una ricerca che ho recentemente letto ad esempio fatta sul salto si scopriva che il lavoro con i sovraccarichi migliorava il salto verticale di un atleta del 10%, tuttavia nel rilevamento con una pedana dinamometrica si scopriva che l’impiego di forza era minore di quello precedente, cioè fatto prima della programmazione di forza.
Secondo la convinzione data da questa ricerca, l’atleta guadagnava coordinazione Intermuscolare, di conseguenza e economizzava il gesto pur migliorandolo.
Come detto però, ci sono anche illustri che partono da presupposti opposti.
Io penso che la cosa fondamentale sia sperimentare e vedere la soggettività. Tuttavia far questo seguendo delle linee ben precise.
Complimenti per l’articolo Lenny,concordo sul fatto che ci sia molta ingnoranza in materia e che, specie nelle palestre “commerciali” si sentono continue bestemmie sugli allenamenti di cui sopra.Il problema almeno per quanto riguarda il sottoscritto è che non esistono dei protocolli di allenamento specifici per quanto rigurda l’allenamento della forza in correlazione sia con la disciplina specifica (in questo caso parliamo di pugiato, ero con te questo autunno ad Assisi) sia per quanto rigurda il loro inserimento con l’avvicinarsi delle gare.Io personalmente da qualche mese sto leggendo anzi studiando il libro “L’allenamento ottimale” volevo sapere se lo conoscevi e nel caso tu lo avessi letto che ne pensavi.
Ciao Flavio, anzitutto grazie per l’apprezzamento, ovviamente, in ricordo di Assisi, puoi capire direttamente alcuni passaggi del testo ma più che altro la motivazione centrale.
Cioè, il fatto che spesso, non si rileva l’essenza delle metodologie e dei programmi e si induce a fare senza criterio, anche dall’alto.
In merito alla tua domanda anzitutto, come detto anche sopra, ti invito a leggere sia Bompa che Verchoshansky, entrambi parlano di boxe. Anche se non con ruoli centrali.
In ogni caso, io credo che essendo la questione della forza, una questione aspecifica, in maniera aspecifica la dobbiamo trattare, decodificare ed applicare.
Mi spiego meglio. Fatta la scelta di come, dove e quanto inserire in una programmazione la forza, non puoi sperare di trovare un programma di forza per la boxe. Ma un programma di forza e basta. Quindi la applicherai al programma che fai.
Ovviamente, quando parliamo di programmazione nel nostro sport è questione complicata, ci ho fatto il precedente pezzo (suddiviso in due parti) sempre qui su RT.
Se prepari un ragazzo per un evento X di cui sai la data, hai delle scelte da fare e le segui, cercando di avere un picco per quella data (come detto ed elencato qui, si possono scegliere diversi presupposti…). Se invece alleni un gruppo, e non hai date precise, la questione rientra un po come negli sport di squadra dove il periodo competitivo è lungo. Quindi, a mio avviso, ruoterai diversi aspetti.
Ovviamente, continuo a dire, lavorando la forza in maniera aspecifica.
(spero di aver capito e risposto bene…)
ti saluto
Ciao Lenny complimenti ottimo articolo! Un chiarimento: come fai a scegliere le metodologie più idonee al tipo di SDC, mi spiego, come fai a ritenere una metodologia più idonea a un sport di striking rispetto ad un altra meglio affiancabile a un sport di grappling?
Praticando Bjj sarei personalmente interessato su come affiancare al meglio metodologie utili!
Un saluto
Ciao, Anzitutto grazie per l’apprezzamento.
Senti, la soggettività è tutto!
Anche nello stesso sport. Nel senso che non devi far altro che sperimentare e vedere con quale di queste ti esprimi meglio. Io però ti dico che sinceramente in genere il tutto è legato alla questione degli sport di percussione, cioè al contrasto tra forza e rapidità, chiamiamola ignorantemente scioltezza. C’è chi difatti, si trova meglio a periodizzare lasciando la parte finale al dinamico, proprio per questo.
Non sono il più esperto nel campo, ma credo che negli sport dove ci sono le prese, quindi un tempo di contatto e capacità di esprimere più forza massimale nei gesti, lascerei una buona programmazione della forza, con carichi alti e verso il finale ridurrei solo il buffer mantenendo sempre alti i carichi. Oppure in maniera parallela come avviene nel coniugato. Dove ci sono le percussioni, alcuni si trovano meglio a lasciare il periodo finale solo per i lavori di potenza o forza veloce.
Grazie mille x la cortese risposta Lenny,appena finisco di leggere/studiare “l’allenamento ottimale” (che consiglio a tutti),leggerò i testi che hai citato.
ciao molto piacere mi chiamo lorenzo, complimenti davvero per l’articolo! arrivo subito al dunque, cercando di stravolgere un po’ le cose… è davvero così importante l’allenamento della forza in uno sport da combattimento di soli colpi? (l’mma e la lotta so malapena cosa siano ma immagino che la forza abbia una maggiore importanza). ho letto il libro di ado gruzza, il metodo distribuito, e mi è rimasto particolarmente impresso quando faceva la semplice osservazione che un pesista se ne frega “della massa”, non la ricerca attraverso un programma classico di bodybuilding, ma è grosso e muscoloso lo stesso. e volevo fare un osservazione simile: per qualche mese ho praticato la muay thai in thailandia, dove l’allenamento è grossomodo standard in tutta la nazione (ho anche appena scritto un breve articolo sul mio nuovo blog a riguardo se vuoi buttarci un occhio https://muayblog.wordpress.com/2014/11/05/l-allenamento-di-muay-thai-in-thailandia/ ) e si può ben notare che la forza non viene proprio allenata. si fanno solamente svariate serie di piegamenti sui pugni a braccia strette, ma “un po’ molto alla c..” e tantissimi sit up ed eventualmente qualche trazione, ma non gli viene data particolare importanza. la preparazione atletica consiste nel correre circa 15km tutti i giorni e tantissimo lavoro specifico. niente forza, eppure poi sul ring avendo la giusta tecnica hanno anche i colpi potenti! chissà magari se allenassero la forza sarebbero ancora più efficaci, però questo è per dire che secondo me la tecnica è di gran lunga più importante che della forza fisica in sè, basti pensare che se dai un pugno e il busto spinge da tutt’altra parte rispetto al bersaglio, tutta la forza andrà dall’altra parte!
Ciao, anzitutto grazie per il contributo alla discussione.
Senti, il tema e gli esempi che poni sono classici nel nostro ambiente. È più o meno, quella che si può definire una linea di difesa usuale di chi sostiene il vecchio (inteso come approccio e metodologia) nei confronti del nuovo.
Ma bisogna conoscere ed analizzare bene il contesto nel quale si opera, e soprattutto porsi do fronte all’esigenza di costruire un atleta dall’età più malleabile fino alla maturità fisica e tecnica.
Questi sono aspetti che solamente chi è dentro i nostri sport può comprendere a fondo, Ado, pozzo di sapere in termini di pesi e forza, ragiona ovviamente da chi lavora ed insegna nel suo ma non nel nostro campo e consiglia, magari giustamente vista l’inflazione di persone che con un back squat pensano di diventare chissá chi, che il fulcro di una programmazione è altrove.
Il che se giusto, non va dimenticato che non ci deve distogliere dall’importanza,appunto, di costruire non un pugile, un kicker o altro, ma prima di tutto un atleta che sappia fare e rispondere a tutto. Altrimenti il cosiddetto “stallo” è dietro l’angolo.
Gli esempi che citi, come la Tailandia è il Mexico per la boxe, non fanno testo.
Ci sono luoghi dove si emerge per qualità ed altri per quantità. Qui da noi, emergi per qualità, nel senso che se alleni devi tirare fuori il meglio di ciò che hai da li. In palestra se hai 5 ragazzi che ti seguono da 12 a 20 anni è grasso che cola. Poi uno smette, uno si fidanza, l’altro diventa manovale e lo sport finisce li.
Non hai opzione di scelta. Devi migliorarli tutti, in tutti gli aspetti, con tutte le annesse lacune di una società povera in termini di educazione fisica sin dalla scuola, e poi giocartela. Non hai la possibilità dell’allenatore messicano o tailandese di scegliere il meglio tra i meglio dell’orda di piccoli prospect.
In posti come Tailandia e Mexico hanno 40 bambini che a 15 anni hanno fatto 50 incontri. Da noi a 15 la mamma ti domanda se è il caso che fa sparring o meno.
Faccio analisi di contesto, non giudico ma analizzo.
Laggiù 25 smettono a 18 anni segnati dalle battaglie, i rimanenti, sono quello che sono (cyborg) che leggono le situazioni di ring come un topolino e tra i tanti hanno un patrimonio genetico eccellente. È un dato di fatto. Materialismo applicato, sociologia, pragmatismo sportivo, chiamalo come vuoi. Da noi questo succede col calcio. Ti faccio un esempio classico che calza.
Tra 30 bimbi bravi nel calcio, in Italia si sceglie i 10 dotati fisicamente e tecnicamente. Perché si può fare. Se eri in Danimarca, di bimbi ne avevi 10. Di questi 3 erano dotati tecnicamente e non fisicamente e 2 viceversa. Dopo anni di lavoro a te rimane un solo bravo bimbo, dotato tecnicamente, carente fisicamente. Quindi, o ci lavori o sei fottuto.
Invece dovendo lavorare sulla quantità sei costretto a tentare di migliorare i parametri tecnici e fisici nei rispettivi gruppi, e quando te ne rimane uno, lavorare e comprendere (adattarti) come poter migliorare lui. Forse eticamente anche più giusto (opinione personale)….
….La preparazione atletica è una componente parallela a quella tecnica, non deve entrare in conflitto, sovrastarla, ma neppure finire in secondo piano. Questo per massimizzare le possibilità dello stesso atleta di riuscire in ciò che spera.
Ma sul ring va la situazione, la preparazione è un mezzo per applicare meglio la tattica e la strategia. All’interno di queste componenti la situazione del combattimento impera sempre. Non mi meraviglio che in quei paesi non fanno pesi. Del resto corrono ogni mattina per fare “fiato” quando da decine di anni si è scoperto che il consumo di ossigeno è specifico, e con la corsa non lo condizioni quanto con altro.
In certe situazioni, le tradizioni vincono anche sulla ragione, ma a fare da padrone non è quello, ma la mole di aderenti ad una disciplina. A riprova di ciò, i campioni di quei paesi, quando diventano campioni (esempi del mio sport Pacquiao, Chavez jr…) spesso si affidano a S&C coach come Ariza o altri, che non li fanno correre per fare fiato, ma utilizzano le stesse metodologie che conosciamo.
Ho amici che vivono a NY e si allenano in Gleason’s, se ti racconto che allenamenti fanno, ti metti a ridere. Ma li, e la quantità che fa tutto, se non emergi tu, emerge il prossimo, pazienza, questione di tempo.
Se hai 200 professionisti in palestra puoi allenare anche alla cazzo di cane, qui, se va bene ne hai 2/3 per fare sparring nel giro di 300km. E sei privilegiato.
Tornando al Messico, se pensi che possa dire inesattezze, ti dico che Marquez, 5 volte campione del mondo in diverse categorie,è convinto dal proprio allenatore Beristain a bere le sue urine a fine allenamento per reintegrare quanto perso.
Se parto dal presupposto che ha vinto 5 titoli, che faccio?
Faccio diventare la palestra un club di feticisti?
Quindi, molto probabilmente laddove non hanno grande cultura della programmazione emergono per altro, per un contesto sociale diverso. Per un attitudine diversa. Perché gli SDC sono sport di situazione. Laddove la programmazione è necessaria ed ha un diretto feedback di gara (sport olimpici di prestazione) tutti gli allenatori “guru” che fanno bere piscio sono estinti.
Non a caso, è raro che negli stessi contesti, emergano grandi mole di atleti in sport di prestazione. Non sapendo come si programma, escluse eccezioni ovvie parlo del “generale”, manca una percezione della necessità di farlo e non vi sono grandi numeri di atleti che emergono in discipline affini alla prestazione.
Saluti Lenny
Cacchio grazie mille per la disponibilità hai scritto un altro articolo 🙂 sei molto preparato! Comunque concordo pienamente in tutto. È così. E però a maggior ragione dovrebbe far riflettere appunto sull’importanza di essere bravi tecnicamente e strategicamente, e dedicarci molta attenzione nell’allenamento anche un pò a discapito della preparazione atletica. [Secondo me]. E in fondo io amo le cose alla vecchia maniera, quando il tuo maestro thailandese dopo un incontro ti fa bere succo di aloe per fare tanta cacca in modo da guarire le botte, fai volentieri finta di crederci 🙂 comunque potresti gentilmente mettere un link di un qualche articolo su ciò che hai detto riguardo la corsa? Perchè in effetti anche soprattutto per esperienza personale, te ne rendi proprio conto che è “il fiato” che fai facendo i colpitori o sacco ad alta intensità quello che realmente ti serve, però ero anche sicuro che una buona capacità aerobica di base ci voglia, come per esempio scritto nell articolo su project invictus di alain riccaldi se “correre serve a un praticante di sdc?” Poi certo, correre 8km due volte al giorno, 6 su 7 serve fino a un certo punto, e a quel punto si potrebbe ben sostituire ad esempio con l’allenamento della forza! Grazie mille e in bocca al lupo per i prossimi incontri!
lorenzo
Ciao Lorenzo, ci mancherebbe, mi sembra il minimo che scrivendo un articolo, quando si riceve attenzione bisogna sempre confrontarsi.
Guarda non sono assolutamente un “demonizzatore” della corsa, anzi, tuttavia è palese ricerca di molti anni fa, se non sbaglio della HFL (sezione di Harvard che si occupava di questo) che il consumo aerobico è assolutamente specifico. Comunque, ovviamente, sai bene e come dice lo stesso e preparatissimo Alain, che il generale, poi necessità dello specifico, in tutti gli aspetti. Quindi, non vuol dire che non devi correre, anzi, ma che tutto quello che costruisci in maniera aspecifica, lo devi poi tradurre sul ring.
Come la Thai anche la boxe vive di vecchi personaggi dal sapore magico, tuttavia, bisogna avere una coscienza più ampia oggi, per saper coniugare l’esperienza diretta di questi totem della tecnica, della tattica e della strategia, alla scienza del movimento, che non passa dai miti che (purtroppo) spesso ci vogliono far ingoiare, ma dalla realtà scientifica.
Un saluto e crepi il lupo!