Tecnica, tattica e strategia: che cosa sono? Non confondiamoci e non confondiamo - Rawtraining
di lenny bottai
Leggo continuamente molti siti che si occupano di preparazione, ed in particolare quella affine alle discipline da combattimento. L’inflazione dell’interesse della “scienza del movimento” infatti, anche negli SdC è stata per fortuna veramente esuberante negli ultimi anni, e si sono moltiplicate come i Gremlins sotto l’acqua le pagine che si occupano dei vari aspetti della prestazione. Pubblicazioni molto interessanti sulle metodiche di allenamento e sulla programmazione, sull’alimentazione e di molti altri campi affini a tutto ciò che migliora le condizioni per arrivare ai risultati, seppur in alcuni casi, secondo me, decontestualizzate dalle situazioni logistiche che viviamo in ogni palestra e disciplina che la fanno da padrone in barba alle teorie difficilmente applicabili. Scrissi di questo su queste pagine già in articoli precedenti riferiti alla programmazione.
Tuttavia spesso non si indagano secondo le specificità strettamente connesse che negli sport di situazione altrettanto inficiano il risultato, come ad esempio la tecnica, la tattica e la strategia. Aspetti che, se non curati al dettaglio, quanto e come la preparazione atletica, possono togliere abbondanti probabilità di vittoria o causare addirittura la sconfitta.
Tecnica, strategia e tattica infatti non sono scienze esatte, va specificato a priori, se indiscutibile è comprendere e spiegare come si incrementa una capacità condizionale, attraverso la scienza del movimento, mutuata dalle ricerche e dalla fisiologia umana, per quanto riguarda invece questi aspetti possiamo definirli sempre e comunque “opinioni” difficilmente dimostrabili.
Quindi si potrebbe stabilire che ogni tecnico ed ogni combattente dovrebbe predisporre di una sempre più ampia libreria di soluzioni date da esperienze e punti di vista diversi, e lo scambio può solo arricchire, tuttavia ciò avviene difficilmente, ed ognuno coltiva le sua idea. Ma anche in questo campo, forse, ci sono degli aspetti che debbono essere fissati, ancorati con raziocinio per non rendere tutto approssimativo ed astratto.
Perché se nessuno può toglierci il “calcio parlato” (scusate se mutuo il termine) di come e cosa doveva o dovrebbe fare un combattente in un match, perché è il sale di chi mastica SdC a bordo ring, gabbia o tatami, certo è che i termini che si usano hanno sempre una derivazione chiara, nel significato etimologico delle parole stesse.
Quando Alessandro mi ha chiesto quindi se volevo pubblicare un pezzo, mi sono detto che niente era meglio di queste pagine per creare, forse, “scandalo” in un ambiente conservatore come il mio.
L’incipit è stato rimanere infastidito dal veder utilizzare, anzi, straziare dei termini importantissimi riferiti alla “battaglia sportiva”, ed ho colto l’occasione per una provocazione. Che sia presa come meglio si crede, spero discutendo e avanzando sempre perché ne abbiamo bisogno tutti.
L’ho fatto qui perché RT ha secondo me il pregio, da anni, di concedere spazio senza curarsi troppo del marketing che impone certi standard, come la lunghezza o i temi trattati, linguaggio, i quali in molte pagine debbono essere molto accessibili e vendibili che quando sei neofita ti gratificano ma quando richiedi altro non più.
Mi sono domandato se non potesse essere questo il “la”, come contributo, magari per creare una sezione apposita sul genere, essendo tanti praticanti ed i tecnici di SdC, alcuni bravissimi, assidui lettori con cui ho scambiato spesso opinioni.
Una situazione diversa dalla voce unica ed egemone del maestro che nel suo ambiente in palestra non accetta contraddittorio, ed in parte, forse, è il limite di “provincialismo” del quale molte discipline sono incagliate.
Spesso “ammiro” post, articoli, ma soprattutto annunci di lezioni e cosiddetti stage di atleti o allenatori, anche illustri, che a mio parere (anzi, direi, non è un parere ma un’oggettiva valutazione), utilizzano questi tre termini senza nessuna conoscenza e cultura di base: tecnica, strategia e tattica.
Per qualcuno evidentemente non sono che espressioni del combattimento “sentite e risentite” da mettere in ordine, o meglio disordine, nelle varie lezioni nelle quali si promette di distribuire esperienza acquisita previo “percezioni ed esperienze soggettive” che, seppur siano sempre importanti (sia chiaro), non sono tutto.
Stage e lezioni promosse da associazioni e federazioni, addirittura con campioni, tecnici e formatori nazionali, mi hanno colpito perché vertono su uno o due di questi aspetti separatamente, come se si potessero sezionare e spiegare, tralasciando così l’importante questione nella sua interezza, per la relazione che c’è tra di essi, e l’impossibilità di comprenderli a fondo senza indagarla. Mi è venuto spesso il dubbio quindi che nelle loro accezioni vi fossero dei “buchi neri” dovuti forse alla pigrizia di non voler indagare troppo quel che si è mutuato a caso da altri. L’impellenza di analizzare ad hoc questa sfera basilare della competizione, quindi del combattimento, diventa determinante solo se compresa, altrimenti la relazione tra “problema e soluzione” salta, quantomeno nella dinamica della trasmissione e della formazione, della pedagogia sportiva.
Il buon pugile infatti, anche il campione, si deve sempre ricordare che non è detto sia poi un grande allenatore, che sappia quindi trasmettere ciò che ha imparato, anzi, delle volte non ne è affatto capace, perché magari “sa fare” ma non tanto per cognizione quanto per natura, per dote innata. Quindi trasmettere ciò che non si conosce, o anche che si sa fare per istinto ma non per cognizione, può diventare veramente una “mission impossible”.
Per qualcuno è evidente che queste sono o possono essere – come si usa dire dalle mie parti – “seghe mentali”, ovvero paranoie immotivate, ma probabilmente non si è mai neppure posto il problema fondamentale di capire questi termini, mutuati a caso da qualche altro tecnico o atleta, letti su di un libro o un sito, poco prima magari di utilizzarli ed insegnarli ai propri sottoposti.
D’altronde se siamo dietro a qualche paese dove in TV si analizzano e tracciano le traiettorie dei colpi, ed in sovrimpressione nelle trasmissioni si parla di “reach” lunghezza degli arti, e non altezza del pugile, che in sé non attesta nulla, oppure quale strategia serve al combattente X per battere il combattente Y, mentre da noi ancora non si distinguono due pugili per 10 round, un motivo di fondo ci sarà pure. In Italia, l’analisi accurata in TV avviene solo per il calcio che ingoia tutto l’interesse economico, ma non solo.
Vediamo bene di capire allora cosa significano questi tre termini.
Anzitutto dobbiamo ricordare che li mutuiamo dalla guerra – non è bello dirlo, perché ci auguriamo servano solo dal punto di vista sportivo – ma da questo ambiente, ovvero dai conflitti bellici e le loro relative dinamiche, dobbiamo prenderli ed analizzarli nelle loro accezioni, sempre se vogliamo capirli veramente.
Il primo inciso importante è sulla parola “tecnica”, la quale assume aspetti spesso bizzarri e standardizzati negli SdC. Difatti il fighter “tecnico” in genere è da sempre quello “pulito” ed “elegante”, magari mobile, quello che nella boxe d’oltreoceano datata era chiamato “dancer” e che per antonomasia si contrapponeva al “brawler”, termine che significa “attaccabrighe” a conferma di ciò che analizzerò in seguito. Ma se noi andiamo alla radice del significato del termine “tecnica” troviamo che esso indica l’insieme di regole che compongono un’arte nella sua messa in pratica.
Si deve dire, quindi, che la tecnica è per definizione soggetta a ciò che è necessità del combattente, ovvero, la sua strategia e la sua tattica. La tecnica non è quindi l’insieme delle regole che, aprioristicamente, compongono il “come si deve fare” un qualcosa, in una sola maniera, perché essa non può esistere in uno sport di situazione; semmai è il “come si deve fare per”, una definizione che apre perciò diversi scenari della sua interpretazione, ampia e difficilmente standardizzabile. Dissacrare questa accezione da videogame può essere molto utile per divenire amanti di una disciplina e non di uno stile, difetto assai noto negli SdC.
Per dirla semplice in campo pugilistico, quello di cui mi occupo, un bravo picchiatore che usa la sua arte per stare addosso all’avversario, pressandolo con maestria, anche se sgraziato per taluni efficace, può essere un tecnico perché esegue e sfrutta a pieno la sua tecnica in combattimento, che è l’insieme delle regole che compongono l’arte da lui usata per arrivare alla vittoria.
Eppure così non viene mai definito perché sebbene tecnico nel suo intento, cioè se usa la sua arte con cognizione in base a ciò che sta cercando di fare, non altrettanto lo è per il senso comune ed improprio del termine che tutti hanno imparato (male) e continuano a spacciare imperterriti.
Viviamo purtroppo in un mondo dove tutto viene banalizzato e personalizzato, quindi anche tramandato ed insegnato spesso male, proprio perché manca la cultura e l’elaborazione di fondo a ciò che facciamo (la cosiddetta ricerca dell’efficienza) e questo è uno dei campi in cui si osserva il deficit. Per anni ho sentito dire che il “tecnico” è un certo tipo di pugile aprioristicamente, con una struttura fisica quasi sempre scontata e con uno stile di combattimento pre-stampato. Molti atleti, confusi per tecnici, sono invece semplicemente ragazzi che istintivamente e fisicamente sono inclini alla scherma ed al colpire velocemente e da lontano, al sottrarsi allo scontro per genesi e non per strategia. E spesso, quando il compito sul ring richiede altro, magari chiudere gli spazi e mettere pressione all’avversario, non ci riescono perché appunto paradossalmente mancano di capacità tecnica, quella che non hanno nel DNA.
L’attendista che incontra un altro attendista e non ha capacità tecnica, tattica e strategica di variare, difficilmente si esprime, eppure è (o sarebbe) un tecnico. Di queste situazioni chiunque è stato all’angolo ne ha vissute a sacchetti ma le legge spesso come il senso comune impone.
Perché anche i colpi in sé, nudi e crudi, non sono l’esecuzione di un salto, oppure di un lancio e sono soggetti alla tecnica che è a sua volta soggetta al ruolo della strategia di combattimento.
Il problema è però che in molti SdC è mancata spesso l’elaborazione teorica, vista come male che deturpa la pratica, la quale è sempre necessaria, sia chiaro, ma solo se in stretta correlazione. Questo almeno in termini di docenza, perché “tramandare un esperienza” da sé, essendo soggettiva e soprattutto spesso mai elaborata a freddo, quindi senza cognizione, può subire l’influenza irrazionale di chi la trasmette. Bisogna quindi mantenere sempre la bussola in mano per non perdersi nel deserto del nulla teorico che non può fare il pratico, e rispondere prontamente alla situazione del ring, gabbia o qualsiasi altro palcoscenico del combattimento.
Un esempio pratico: Per anni ho sentito dire, da maestri molto “tecnici”, che il gancio con il braccio avanzato (sinistro per guardia normale, destro per i mancini) si lancia a perno aprioristicamente (compiendo una variazione di angolo, cioè ruotando la posizione di guardia per portarsi fuori dall’asse di combattimento). Il mio primo maestro fu campione olimpico, era uno schermidore nato, un tecnico, e come tutti i tecnici per l’accezione comune elencata già, era uno sfuggente. Chi è incline alla boxe a distanza, come lo era lui, ha bisogno di spazio e sfuggendo si nutre di questo approccio: non dare riferimenti ed aprirsi sempre una strada per sfuggire. Sfrutta quindi tutti gli spazi che ha, variando la sua posizione anche mentre colpisce. Per questo capita quasi sempre che il gancio con il braccio avanzato lo porta a perno per lasciare poi l’avversario disorientato e senza riferimenti per il contrattacco.
Ma, viceversa, se il pugile deve accorciare ed avanzare non può permettersi questo. Sarebbe un grave errore tattico, perché dovendo chiudere gli spazi, un movimento a perno lo penalizzerebbe. In genere i picchiatori messicani mentre attaccano fanno variazioni di angoli, ma chiudendo gli spazi, e quasi sempre per lavorare al corpo gli avversari. La stessa identica analisi si può fare per molti altri colpi soggetti alle morfologie e alle strategie che vanno cucite nelle soggettività nelle diverse situazioni.
Questa è la tecnica, almeno da vocabolario: l’insieme delle regole che compongono una messa in pratica di un arte. Julio Cesar Chavez nella sua maestria in pressione sull’avversario è un esempio palese di ciò che intendo. In alcune situazioni, basta osservare un qualsiasi video storico, lo si può vedere ad esempio tenere la testa appoggiata sull’avversario per non perdere mai riferimento, contatto, stressarlo continuamente psicologicamente, per poi incrociarlo al viso e martellarlo al corpo.
Chi definirebbe questa tecnica?
Sicuramente non nell’accezione comune del termine.
Ed ecco che si apre quindi un altro mondo da quello inizialmente ipotizzato, quello della guerra, quindi la situazione alla quale rispondere con impellenza seppur con un chiaro progetto a lungo termine che porta poi alla vittoria. Esse sono, signori e signore: tattica e strategia. Termini spesso brutalizzati oltremodo.
La strategia è l’insieme delle regole, nell’analisi delle disponibilità (armi, tempo, territorio…) che compongono il disegno che porta alla vittoria della guerra (incontro). La tattica, invece, è l’insieme delle regole che compongono il disegno che porta a passare la situazione impellente, la vittoria della battaglia (situazione immediata, oppure mettiamo una ripresa, o parte di essa) senza la quale, magari, non si arriva a vincere la guerra. E non è detto che la seconda sia sempre in linea con la prima, anzi, può essere il contrario, perché la prima è data dalla capacità di lungimiranza mentre la seconda dalla necessità di rispondere nell’impellenza.
Cosa significa nel pratico?
Supponiamo che un pugile o un altro combattente abbia il compito per necessità del senso strategico di sottrarsi allo scontro e non dare nessun punto di riferimento al rivale. Supponiamo che in una data situazione, oppure in una ripresa in particolare, si trova chiuso negli spazi o affaticato, in prossimità delle corde ad esempio, un bravo sfuggente non arretra mai se non ha abbastanza spazio, ma avanza e chiude per poi aprirsi una via laterale. Oppure, cerca ci accorciare ed imbrigliare, legare o altro, il rivale. Tutti i pugili intelligenti, abili nella gestione degli spazi sono capaci di fare questo, basta osservarli attentamente, sanno cambiare improvvisamente tattica per poi tornare alla loro strategia. Avete mai osservato Lara, Kahn, Donaire, per citarne alcuni (chi mastica di boxe).
Perché nel momento, cioè nella situazione, magari nella ripresa o in parte di essa, la necessità è l’esatto contrario del disegno più ampio necessario per arrivare a vincere, quindi è affine alla sopravvivenza (passare la situazione quindi vincere la battaglia per continuare poi il disegno di vincere la guerra).
Nel senso opposto, ogni buon attaccante che conosce la complessità di riuscire anche a non essere un bersaglio fisso, quindi vulnerabile agli attacchi del rivale, sa bene che riuscire in alcune fasi a variare la posizione, utilizzando spostamenti, variazioni di angolo, cambiare misura ed anche tattica improvvisamente, magari perché è necessario per portare a termine la propria strategia. Gennady Golovkin è un esempio palese di come il picchiatore moderno modello sia questo.
Il periodo storico nel quale un combattente si poteva leggere anche solo dal record, dalla percentuale dei KO, per ipotizzarlo nella sua condotta, è probabilmente passato. La grande evoluzione degli SdC, progrediti anche grazie ad un incremento esponenziale delle capacità atletiche che hanno velocizzato ed intensificato le competizioni a tutti i livelli, richiede anche la massima accuratezza ed un’ampia visione, la quale spesso è fornita dagli uomini d’angolo. Poi ci sono ovviamente gli esempi di capacità innate, DNA che non fanno testo, eclettici iper-dotati, oppure monotematici che spiccano perché quella parte poco allenabile che risiede nell’anima di un combattente che non si spiega troppo, seppur va ricordato che questo spesso, di fronte ad una difficoltà che manda in corto circuito gli schemi con i quali ha sempre dominato, difficilmente sa trovare una soluzione. Ma i combattenti eclettici e longevi, sanno rispondere ad ogni situazione con intelligenza, osservare Keith Thurman per capire cosa si intende.
A questo dovrebbe servire osservare i grandi incontri ed analizzarli, magari insieme ai propri atleti. Portare esempi palesi che possono più di qualsiasi altra parola letta qui, spiegare bene i concetti delle necessità tattiche e strategiche del combattimento. Miguel Cotto ha battuto Antonio Margarito nel suo re-match utilizzando una strategia esattamente opposta a quella del primo incontro. Non di certo per la storia dei bendaggi, ma per il disegno perfetto che lo ha portato a vincere senza dubbi. Questo è ciò che dobbiamo imparare e insegnare, perché il combattimento è un arte che senza cognizione può perdere una parte determinante.
Avrei un sacco da campeggio di esempi che uso nelle lezioni, proprio perché costituiscono un database fondamentale, ovviamente riferiti al mio sport e quindi forse limitanti nell’universo degli SdC. Uno su tutti, che si può comprendere, è ad esempio osservare come, che se ne dica, uno dei pugili più intelligenti della storia della boxe, Floyd Mayweather, ha superato contro Shane Mosley una dura crisi nella seconda ripresa facendo l’esatto contrario di ciò che almeno il 90% degli insegnanti nostrani avrebbe consigliato. Floyd dopo un quasi knock down, avanzò e chiudendo gli spazi, spingendo Mosley indietro, spegnendo come dico sempre “il fuoco col fuoco”. È ovvio, ci vuole una certa capacità, oltre ad un certo intelletto strategico, ma sono queste le cose che si possono “imitare” dei mostri, e non i gesti di un DNA unico magari provando a scimmiottare la sua difesa costruita in migliaia di ore di pratica e un DNA unico.
E la tecnica allora?
È dentro tutte queste esigenze tattiche e strategiche che si espleta la tecnica. Anche di come si porta un singolo colpo. Ovvero, i colpi li porterai come ti impongono le regole di quello che è il compito con il quale intendi raggiungere l’obiettivo (vittoria). Sempre se ne hai percezione e capacità cognitiva, prima che tecnica.
Se invece aprioristicamente ti hanno insegnato per essere “bello” stilisticamente o semplicemente “perché si fa così”, perché “è meglio così”, atteggiamenti spesso collegati per non dire vincolati all’individualità di chi ti insegna qualcosa, che un singolo colpo non può avere esigenze di essere portato e quindi anche insegnato in maniera diversa, i principi dell’utilizzo di strategia e tattica di combattimento saltano. Il problema nasce mio avviso quando non si ama una disciplina, un’arte come quella del combattimento, a 360° ma si è tifosi di uno stile.
Per decenni i fans dei picchiatori non hanno sopportato i “tecnici”, reputandoli “conigli”, e viceversa i “tecnici” hanno disprezzato i picchiatori reputandoli carne da macello poco dotata. In realtà amare l’arte del combattimento, ed insegnarla, è cucirla nelle situazioni e soprattutto alle capacità ed alle soggettività. Senza questo non si è in grado a mio avviso di utilizzare neppure la scienza sportiva con la quale ci siamo preparati per un grande evento, ed anche la costruzione di un atleta si limita parecchio.
Perché il binario che viaggia verso la vittoria è costruito con due rotaie che viaggiano in parallelo verso il risultato. La preparazione atletica e quella tecnico/tattica/strategica, che è quanto detto, per genesi dei termini e non per opinione mia, che lascia anche il tempo che trova al contrario del vocabolario.
mangusta77
Lenny Bottai - Livorno 1977.
Pugile professionista in attività.
Camp. Internazionale IBO 2009
Camp. italiano 2010
Camp. Internazionale IBF 2011
Camp. Del mediterraneo Wbc 2012
Camp. intercontinentale IBF 2014
Semifinalista mondiale pesi superwelter professionisti 2014
Campione d'Italia 2016
Tecnico Fpi di pugilato. Preparatore atletico per SDC
Collaboratore gruppo docenti Uipasc (unione italiani preparatori sport da combattimento).
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Bellissimo articolo! Complimenti…