Una questione di cervello - Rawtraining
di Pietro Trabucchi
Ti alleni con metodo, con intensità, con dedizione. Il tuo corpo reagisce e si adatta, progredendo verso gli obiettivi che ti sei posto, sulla strada per sconfiggere i tuoi demoni.
E la mente? Che ruolo gioca la mente nel cammino verso i tuoi obiettivi? In che modo la psiche è in grado di influenzare la prestazione del corpo e, ancora, possiamo allenare la mente come alleniamo i muscoli per arrivare ad ottenere i risultati che ci siamo prefissati?
La psicologia dell’atleta gioca un ruolo fondamentale per la riuscita nello sport, qualsiasi siano i demoni da sconfiggere e noi di RawTraining crediamo che questo aspetto dell’allenamento sia troppo spesso sottovalutato, se non, addirittura, del tutto sconosciuto?…tranne forse in alcuni contesti che hanno stimolato le ricerche in questo campo e da cui attingiamo molte delle informazioni che abbiamo oggi a disposizione).
Spingere la propria prestazione superando la fatica mentale, sia che si tratti di qualche km in più o di una manciata di ripetizioni, può tracciare il confine tra la vittoria e la sconfitta.
Pubblichiamo il terzo articolo di una serie dedicata agli aspetti psicologici dell’allenamento che verranno approfonditi nel dettaglio nel nostro workshop dedicato a queste tematiche.
Dalla pubblicazione dell’ormai celebre articolo scientifico di Bramble e Libermann del 2004 in poi è comunemente accettato che il corpo umano sia stato modellato da un milione e mezzo di anni trascorsi a correre inseguendo le prede di caccia. Molto meno noto è come quel milione e mezzo di anni abbiano modificato anche il cervello. La ricerca applicata all’Ultraendurance ci aiuta a scoprirlo.
Dal 1983 a Prescott, in Arizona, si svolge annualmente la “Man Against Horse Race”: una sfida di corsa tra uomo e cavallo di 50 miglia (80 km). I risultati sono sorprendenti. Dal 1999, con la vittoria di Paul Bonnet, hanno cominciato a vincere regolarmente gli umani. Eppure i cavalli vengono allenati per mesi. Il percorso è montagnoso, il clima molto caldo, e chi vince chiude solitamente la competizione intorno alle otto ore. È una gara di gestione delle proprie forze e dei propri limiti. Il problema – dal punto di vista equino – sta proprio qui.
Il cavallo è molto più veloce dell’uomo, ma molto meno bravo nel gestire la fatica. Va in modo automatico. Non ha molta consapevolezza di quanto stia consumando. È il fantino che deve gestirlo. Il rischio è che l’animale, superato un certo grado di fatica, crolli a terra sfinito. Nell’uomo questa possibilità è più remota: anche se fisicamente- sotto certi aspetti – è più debole, la sua gestione della fatica è molto più efficace. È una questione di cervello, come vedremo.
Forse, il segreto della sopravvivenza della nostra specie sta tutto qui. Ma questa storia, che ha l’epilogo nella sfida tra l’uomo e il cavallo di questi anni, ha inizio un milione e mezzo di anni fa.
Nel 2004 la prestigiosa rivista “Nature” dedica la copertina del mese di novembre ad una ricerca insolita. Si tratta dello studio di due scienziati, Dennis Bramble e Daniel Lieberman che dimostrano come l’evoluzione abbia selezionato nella nostra specie alcune caratteristiche che la rendono – unica tra i primati- specialista nella corsa di resistenza. I due ricercatori hanno individuato nel corpo umano ventisei marker morfologici che segnalano adattamenti alla corsa di resistenza.
L’adattamento più evidente: l’Homo Sapiens Sapiens è pressoché totalmente privo di pelliccia, fatta eccezione per una piccola porzione superstite sulla sommità del capo destinata a proteggere il cervello dall’irraggiamento solare. Gli umani presentano una termoregolazione molto più efficiente che qualsiasi altra specie animale. La perdita del pelo si accompagna ad un incremento straordinario della presenza di ghiandole sudoripare sotto la pelle nuda. Gli umani quindi, benché molto più lenti negli sprint si sono evoluti per correre a lungo.
Ma tutto questo, perché? Perchè la possibilità di correre ha aperto nuovi orizzonti alimentari alla nostra specie. Il passaggio fondamentale nell’evoluzione dei nostri progenitori sembra sia stata proprio l’introduzione di nuove fonti di cibo: più calorie e proteine extra a disposizione nella dieta hanno permesso al nostro cervello di espandersi trasformando il limitato processore dell’Australopiteco nel modello molto più evoluto proprio dell’Homo Erectus. Più di proteine, vuol dire più carne. I nostri lontani antenati cacciavano prede di grosse dimensioni, unica possibilità per assicurare carne all’intero gruppo: antilopi, gazzelle, orici, cervi, ungulati veloci a scappare e di grossa taglia. C’era solo un problema: un milione e mezzo di anni fa l’arco e le frecce non erano ancora stati inventati. Non c’erano nemmeno la lancia (la cui comparsa pare situarsi tra i trecento e i duecentomila anni fa); men che meno le fionde, le balestre e tutto il resto dell’arsenale. Come potevano farcela quegli incroci tra scimmioni ed esseri umani, armati solo di nudi bastoni? È semplice. Privi della velocità per assalirle a sorpresa le sfinivano a furia di inseguirle. È quello che viene definite “persistence hunting”, caccia persistente. L’animale viene inseguito dai cacciatori e naturalmente all’inizio distanza gli inseguitori. Ma questi continuano ad inseguirlo basandosi sulle tracce quando non è più a portata di vista. Dopo qualche tempo la preda comincia a surriscaldarsi e deve rallentare: la sua termoregolazione non è efficiente come quella dei suoi inseguitori. Ma gli ominidi continuano ad inseguirla. Alla fine dopo un inseguimento che dura anche cinque o sei ore l’animale è sfinito; crolla a terra, ansimante e rassegnato, con lo sguardo perso mentre gli inseguitori lo raggiungono e lo finiscono a bastonate.
Oltre un milione e mezzo di anni avanti e indietro attraverso la savana hanno plasmato la nostra specie. C’è stata una pressione selettiva nei confronti degli individui più resistenti e verso lo sviluppo di particolari caratteristiche fisiche. Fino ad ora l’attenzione degli scienziati si è focalizzata sugli adattamenti fisici. Ma i millenni di caccia persistente ha anche selezionato speciali caratteristiche cerebrali. Il cacciatore perseverante aveva necessità di mantenere la concentrazione e l’impegno sull’obiettivo a livelli elevati e per lungo tempo. Oggi si cominciano a studiare alcune aree recenti del cervello umano, come le aree pre-frontali. Sono aree coinvolte nella concentrazione, nei processi attentivi e nei comportamenti mediati dall’intervento della volontà, come il resistere ad una tentazione. Se qualcuno vi mette davanti il vostro dolce preferito e vi chiede di non toccarlo, queste aree si attivano in modo massiccio. La “forza di volontà” cessa di essere un concetto filosofico e comincia a diventare un’espressione dell’attività cerebrale, un tassello di quel puzzle complesso definito “resilienza”. Mantenere la motivazione è una disciplina, è esercizio, richiede risorse. È anche abitudine ad accettare il disagio, a sopportare. Un’intera parte del nostro cervello si è sviluppata per permetterci questo.
Ora torniamo al cavallo che crolla esausto. Gli animali, quando hanno “dato tutto”, metabolicamente parlando, si spengono. Raggiunto un certo livello di fatica è come se entrasse in gioco una sorta di salvavita che disattiva tutto per evitare un collasso mortale. Il salvavita è un meccanismo che non può essere disattivato: è il mezzo con cui il cervello frena la periferia (i muscoli) in risposta ai segnali di allarme che giungono da lì.
Il salvavita blocca gli animali sull’orlo del baratro: morte da sfinimento o comunque il dover rimanere molto a lungo privi di energie, in balia dei pericoli presente nell’ambiente. Esso quindi riveste una funzione biologica legata alla sopravvivenza.
Il fantino sa che le energie del cavallo vanno preservate; che, sull’onda dell’eccitazione della gara l’animale potrebbe andare troppo oltre, facendo “scattare” il salvavita. Quindi il cavaliere gestisce come meglio può lo sforzo dell’animale e lascia che ogni tanti chilometri faccia delle pause.
Anche l’uomo è dotato del “salvavita”. Né più, né meno che il cavallo. Eppure il cacciatore persistente ha dovuto imparare a forzare un pochino il servomeccanismo.
Ha dovuto farlo perché -con un andamento del tipo cavallo, “corri un po’ ma poi fermati”- non avrebbe mai raggiunto l’antilope. Nell’uomo la spinta motivazionale eccede l’automatismo. Il cavallo è più forte, muscolarmente parlando, ma l’uomo lo supera perché ha imparato a forzare i meccanismi biologici tramite la volontà. Se gli umani non possedessero straordinarie capacità di gestione, nessuno finirebbe le ultramaratone di 24 ore, o l’Ultratrail. Se gli uomini non avessero il potere di trascendere la sofferenza, imporsi di andare oltre, dimenticare la fatica, avrebbero fatto ben poca strada.
Capire il funzionamento del salvavita presuppone un cambiamento rivoluzionario nella nostra visione del rapporto mente-corpo. Infatti la storia del cavallo ci avverte che non è più possibile escludere il cervello dalle spiegazioni riguardanti la fatica ed i limiti delle prestazioni atletiche. È il cervello il reale fattore limitante la prestazione atletica, non la periferia. Ma questo – in modo intuitivo- lo avevamo già compreso tutti. Se la fatica fosse solo un problema periferico, di carburante nei muscoli, come spiegare le persone sfinite che riescono a fare lo sprint finale quando vedono lo striscione d’arrivo della maratona? Se davvero la fatica fosse solo questione di benzina terminata, questo non dovrebbe essere possibile.
Il primo ad accorgersi dell’esistenza del salvavita fu il fisiologo giapponese Ikai. Egli fece eseguire ad alcuni soggetti delle contrazioni volontarie ad esaurimento: cioè chiese loro di sollevare un certo peso sino all’incapacità di proseguire l’esercizio. Poi, quando in nessun modo con la volontà si riuscivano ad ottenere altre contrazioni, pose un elettrodo sui nervi motori interessati dal movimento: stimolandoli elettricamente riuscì ad ottenere ulteriori sollevamenti. Quando anche con questo sistema le contrazioni cessarono, ne ottenne qualcun’altra ponendo gli elettrodi direttamente sul muscolo. Alla fine non fu più possibile ottenere nessun ulteriore contrazione in nessun modo: il vero limite periferico era stato raggiunto.
L’esperienza di Ikai dimostra l’esistenza di un “freno” a livello cerebrale che entra in azione ben prima che venga raggiunto il reale esaurimento muscolare. Il freno è presente sia nell’uomo che negli animali. Ma la volontà e la motivazione riescono – un pochino – a forzarlo.
Se l’uomo è l’animale più resistente non lo è solo grazie agli adattamenti anatomici evidenziati da Bramble e Libermann: lo è perché i due milioni di caccia persistente hanno prodotto adattamenti cerebrali altrettanto importanti. L’evoluzione umana ha portato allo sviluppo di aree specializzate che mantengono attiva la motivazione verso l’obiettivo nonostante le difficoltà e la sofferenza presente. Senza il loro aiuto il cacciatore persistente si sarebbe fermato molto prima di sfinire l’antilope. E noi ci saremmo estinti.
Nelle gare molto lunghe si fa avanti un problema ulteriore: il lavoro compiuto dalle aree prefrontali ha un costo metabolico elevatissimo. Si pensi che nella nostra specie il peso del cervello rappresenta circa il 2% dell’intero peso corporeo, a fronte di un consumo energetico che raggiunge il 20% del totale, contro il 9% dello scimpanzè. Come hanno dimostrato in un magistrale lavoro Gailliot e Baumeister, esercitare la volontà consuma glucosio in maniera enorme.
Il calo del glucosio disponibile a livello cerebrale attiva il salva-vita. Il cervello blocca la macchina anche se a livello periferico, nelle fibre muscolare, il glucosio è ancora presente. Quindi l’ultramaratoneta vive ad un certo punto una specie di paradosso: calando il glucosio aumenta la fatica e per andare avanti l’atleta deve mobilitare pesantemente la volontà, cioè le aree prefrontali. Queste però- a loro volta- richiedono grandi quantità di glucosio per funzionare. L’atleta quindi entra in uno stato permanente di crisi, dove l’unica via di salvezza è rappresentata dalle sue capacità di gestione tecnica e psicologica.
Nelle ricerche svolte come Università di Verona al Tor des Geants 2011, affiancati anche dalle università di Losanna e Liverpool oltre che al Centro di medicina di Montagna di Aosta appare evidente che gli atleti esperti riescano a mantenere più attive le aree prefrontali nonostante l’affaticamento, la deplezione del glucosio e la deprivazione da sonno. Il loro cervello è così allenato e forte da limitare in entrata persino le percezioni legate al dolore. I due milioni di anni di caccia persistente hanno plasmato i lobi frontali creando uno strumento incomparabile.
Bibliografia
Dennis M. Bramble & Daniel E. Lieberman, (2004) Endurance running and the evolution of Homo, Nature, vol 432, 345: 352
Lieberman, D.E., Raichlen, D.A., Pontzer, H., Bramble, D.M., and Cutright-Smith, E. (2006) The human gluteus maximus and its role in running. Journal of Experimental Biology 209:2143-2155.
Rolian, C., Lieberman, D.E., Hamil, J., Scott, J.W., and Werbel, W. (2009) Walking, running and the evolution of short toes in humans. Journal of Experimental Biology 212:713-72.
Ikai, M. y Steinhaus, A.H. (1961): Some factors modifying the expression of human strength. – Journal of applied Physiology, nº 28, 157-163.
Matthew T. Gailliot and Roy F. Baumeister, The Physiology of Willpower: Linking Blood Glucose to Self-Control, Pers Soc Psychol Rev 2007; 11; 303
ptrabucchi
Pietro Trabucchi, si occupa da oltre due decenni di psicologia dello sport, ed in particolare del tema della motivazione e della resilienza.
Insegna "Psicologia dello sport" presso l'Università di Verona. È stato lo Psicologo della Squadra Olimpica Italiana di Sci di Fondo alle Olimpiadi di Torino 2006 (2 medaglie d'oro, 2 di bronzo) e psicologo delle Squadre Nazionali di Triathlon. Attualmente è psicologo delle Squadre Nazionali di Ultramaratona (Campione del mondo 2011 e 2012).
Ha lavorato alla preparazione dei membri di diverse spedizioni alpinistiche finalizzate all'acquisizione di record di ascensione (Aconcagua, Everest, Mc Kinley..). Nel 2005 ha raggiunto la cima dell'Everest nell'ambito della spedizione "Everest Vitesse.
È autore di diversi libri sul tema della resilienza e dell'allenamento mentale, tra i quali -Resisto quindi sono (Corbaccio)- ha vinto nel 2008 il Premio letterario del CONI ed è stato presentato nell'ambito del programma televisivo "Che tempo che fa". L'ultimo libro "Perseverare è umano", uscito all'inizio del 2012, è già alla 5^ edizione. Appassionato di sport di resistenza è stato più volte finisher del Tor des Geants e dell'Ultra Trail del Monte Bianco.
È stato consulente e formatore sui temi della resilienza e dello stress management in molte aziende; intorno a questi argomenti è stato recentemente chiamato ad insegnare presso il "Center of Excellence for Stability Police Units" che si occupa dell'addestramento delle forze internazionali in missione di pace inquadrate presso Eurogendfor e Onu.
La sua attività e materiali sugli argomenti da lui trattati possono essere scaricati dal sito www.pietrotrabucchi.it.
Raw Strength & Conditioning for Combat Sports15 Settembre 2014
Impara a respirare: il tuo prossimo PR dipende da questo 15 Settembre 2014
20 commenti
Lascia un commento
Elimina la risposta
E' necessario registrarsi or effettuare l'accesso per poter lasciare un commento.
… L’animale viene inseguito dai cacciatori e naturalmente all’inizio distanza gli inseguitori. Ma questi continuano ad inseguirlo basandosi sulle tracce quando non è più a portata di vista. Dopo qualche tempo la preda comincia a surriscaldarsi e deve rallentare: la sua termoregolazione non è efficiente come quella dei suoi inseguitori. Ma gli ominidi continuano ad inseguirla. Alla fine dopo un inseguimento che dura anche cinque o sei ore l’animale è sfinito; crolla a terra, ansimante e rassegnato, con lo sguardo perso mentre gli inseguitori lo raggiungono e lo finiscono a bastonate.
Come a dire che l’uomo è più resistente e veloce di un animale ?
Vorrei proprio vederlo un uomo che si mette a correre dietro ad una Lepre e riesce a catturarla con le mani .
la ricerca di Bramble e Lieberman fa acqua : http://www.albanesi.it/notizie/ricerca_leggera.htm
Articolo interessante.
Comunque sul fatto che gli animali non siano in grado di autogestirsi non sono d’accordo e l’esempio si può andare a cercare proprio in Africa, tra i grandi felini.
Il leone sa di non essere molto veloce, sa di non poter correre all’infinito dietro la preda, sa che deve risparmiare le energie perché se poi resterà a bocca asciutta si ritroverà molto più stanco e affamato di prima. Tutta questa consapevolezza lo porta a ragionare, muoversi e agire in un certo modo: avvicinarsi sotto vento alla preda, scegliere preferibilmente la più debole e lenta del branco, eccetera.
Allo stesso modo l’antilope sa di non poter correre all’infinito e cercherà di fregare il leone che la insegue cambiando direzione repentinamente, per sbilanciarlo, fargli perdere più tempo ed energie e acquisire via via sempre più vantaggio, distanziandolo.
Gli animali non sono stupidi, tutt’altro, si sanno gestire eccome.
Il fatto è che loro, come l’uomo, si sono evoluti nel corso di migliaia di anni in funzione della sopravvivenza: per cacciare e non farsi cacciare. Si sono specializzati, sviluppando caratteristiche fisiche e capacità specifiche in funzione del luogo in cui vivono (paesaggio, clima, fauna, vegetazione).
Il valore aggiunto nell’uomo sta nella maggiore intelligenza, naturalmente frutto della sua evoluzione, e nelle sue straordinarie capacità di adattamento, che gli consentono di cavarsela in qualsiasi condizione climatica e ambientale.
L’antilope invece non ha mai avuto necessità di trasferirsi alle pendici delle Alpi o di visitare i Poli.
La sfida tra l’uomo e il cavallo fatta su di un terreno montuoso e con un cavallo cresciuto in cattività e portato da un uomo lascia il tempo che trova secondo me. Il cavallo ha 80 kg sulla groppa (sella + nano), è gestito dall’uomo che lo governa e si muove su un terreno che normalmente eviterebbe e dove certamente non andrebbe veloce per evitare di farsi male (cercando foto della gara vedo che si muovono anche sull’asfalto in alcuni tratti, allora grazie al piffero). In altre parole a parità di distanza il cavallo finisce per fare molta più fatica per via della zavorra e del terreno per lui difficoltoso.
Comunque il discorso della metodica della caccia fatta dai nostri progenitori meriterebbe un approfondimento, perché dubito che rincorressero la preda fino a che questa, sfinita, stramazzava al suolo.
Per un semplice motivo, si trovavano in un territorio per loro ostile, dove non c’erano solo prede, ma anche grossi predatori, piante e animali velenosi, infezioni e fratture per loro potenzialmente letali. Se gli andava bene magari campavano 20 anni. Tutti elementi che avrebbero dovuto suggerirgli di muoversi più cautamente.
Io sono più propenso a vederli cacciare come i leoni, in gruppo e con astuzia, circondando la preda, preferibilmente piccola o all’apparenza debole, per poi colpirla con una sassaiola; oppure spingerla in qualche gola o anfratto e ammazzarla con delle lance fatte con dei rami.
Molte delle trappole che si insegnano a realizzare nei corsi militari svolti nella giungla hanno origini antichissime. Voglio dire, per fare un buco in terra, coprirlo con dei rami e spingere la preda a passarci sopra non ci vuole un nobel. Magari a loro è successo per caso e poi l’hanno rifatto intenzionalmente
Guarda i metodi di caccia degli aborigeni o degli indigeni delle foreste dell’america latina. Ci si muove in gruppo, ci si avvicina alla preda piano e la si colpisce, oppure si fa rumore e la si spinge dove si vuole. Che poi sono anche i metodi di caccia impiegati dall’uomo moderno col fucile.
Tutto questo per dire che l’uomo erectus che insegue l’antilope col bastone mi sembra improbabile. 🙂
L’uomo riesce a concludere le ultra maratone anche e soprattutto grazie alla programmazione del suo allenamento e all’adattamento fisico e mentale che ne consegue. In altre parole si specializza in quello. La motivazione da sola non basta, certi limiti fisici si riesce a superarli perché ci si è già andati molto vicini in allenamento. E’ un “dolore” che si è già assaporato insomma e, bene o male, quell’esperienza precedente aiuta a gestirli meglio condizione di gara.
* volevo dire: in condizione di gara (mi sono perso un articolo).
Ciao Unoqualunque, ciao deadboy.
Quello della “caccia persistente” è oggi molto più che un’idea fantascientifica e azzardata. Riassumiamo i punti della teoria:
– Il clima di due milioni di anni fa, con l’alternanza di glaciazioni e periodi caldi provoca in Africa il ritiro di gran parte delle foreste e l’espansione della savana;
– Una parte degli ominidi che vivevano nelle foreste si trovano impossibilitati ad andare avanti campando come raccoglitori frugivori (vegetali e frutta);
– Di conseguenza si rivolgono alla predazione non di animali qualsiasi (non la lepre, Unoqualunque perché sono d’accordo che si sarebbero estinti) ma ungulati di media-grossa taglia;
– La savana è composta da spazi aperti in cui non è possibile confinare la preda; né sono ancora in possesso di una tecnologia che permetta loro di costruire trappole o armi per uccidere a distanza (sono cominciate ad arrivare 250mila anni fa)
– La loro “arma segreta” è la possibilità di far scattare nell’animale uno stato di ipertermia. Questo permette loro l’uccisione delle prede.
– I boscimani ancora oggi utilizzano l’ipertermia per bloccare la preda durante la caccia. Su You Tube è presente un bellissimo documentario di Richard Attenbourgh della BBC che mostra immagini reali e anche crude della caccia persistente.
Attenzione ai dettagli: questo avviene solo in Africa, perché il clima africano permette di far andare l’animale in ipertermia. Altre specie di ominidi, stanziati in climi più temperati, come i Neandertal, cacciavano in maniera completamente diversa (v. questo articolo David A. Raichlen, Hunter Armstrong and Daniel E. Lieberman, Calcaneus length determines running economy: Implications for endurance running performance in modern humans and Neandertals. Journal of Human Evolution, 60 (3) : 299-308, 2011). I Nandertal svilupparono – nonostante la contiguità genetica strettissima con noi-una minore predisposizione per l’endurance: infatti l’apparato locomotorio delle due specie differiva significativamente: i nostri cugini erano caratterizzati da arti molto più robusti e più corti dei nostri, con calcagni nettamente più lunghi. La lunghezza del calcagno influenza il costo energetico della corsa. I Neandertal erano soggetti ad un dispendio energetico maggiore durante la corsa, e probabilmente non la mantenevano per lungo tempo. Ciò probabilmente anche perché l’ipertermia era un obiettivo molto più difficile da raggiungere nei climi temperati europei dove i Neandertal vivevano. Anche i forti traumi riscontrati dalle analisi paleopatologiche sui loro arti superiori suggeriscono che le loro battute di caccia fossero soprattutto violente battaglie corpo a corpo con le prede, e che fossero quindi molto lontane dalle strategie di caccia persistente (“persistence hunting”) : i neadertal erano dei lottatori mentre i i sapiens dei maratoneti.
Ultimo suggerimento: va benissimo che vi facciate anche voi un’idea critica su queste ricerche ma, per Dio, non sul sito di Albanesi. Leggete i lavori originali, che al limite posso fornirvi tramite al redazione se non li trovate. Nello specifico del lavoro di Bramble e Libermann, ricordatevi che avere un lavoro pubblicato su Science, una delle riviste scientifiche più prestigiose al mondo, significa che la tua ricerca viene ispezionata per sei mesi da un board di ricercatori senior molto esperti. Tra i più esperti a livello mondiale nel loro campo. Albanesi è libero di sputare su chi vuole: resta il fatto che non è un ricercatore, anche se gli piace atteggiarsi a tale. E un ingegnere informatico tuttologo che ha pubblicato una trentina di libri in proprio che vanno dalle diete, alla corsa, alla ricerca della felicità. E’ una brava persona, ma su questo tema il suo parere non conta nulla (tra l’altro, ho letto quello che scrive. Alcune obiezioni sono veramente poco consistenti).
Ultimissima osservazione su quanto diceva deadboy che mi sembra tocchi il punto centrale dell’intero discorso. Certo che le ultramaratone vengono corse grazie agli adattamenti fisici e mentali che l’allenamento produce. Su questo non c’è alcun dubbio. La tua osservazione mi fa sorgere un dubbio: come se tu avessi capito che quando parlo di motivazione io stessi parlando di una specie di forza magica piovuta dal cielo. Niente di più lontano dal vero. Nel caso della corsa prolungata la motivazione – in questo caso sarebbe meglio dire la capacità di resistere alla fatica e di dilazionare la gratificazione- è legata all’attività (misurabile) delle aree prefrontali della corteccia. Si tratta di qualcosa di molto concreto, allo stesso modo degli aspetti neurali presenti nella forza. Ripeto, non c’è niente di magico: se coltivi al massimo le tue qualità motivazionali, quello che ti viene consentito è di andare in fondo alle tue capacità metaboliche. Nulla di più di questo. Ma quanti atleti oggi arrivano ai loro limiti metabolici? Il messaggio dell’ articolo se vuoi è proprio questo: come specie, nasciamo tutti dotati potenzialmente di grandi capacità motivazionali. Ma se poi non le coltiviamo –attraverso l’allenamento- ci riduciamo come gran parte della popolazione dei paesi avanzati: una sorta di zombie, privi di volontà per essere dei perfetti consumatori.
Ciao Trab
Intanto mi piacerebbe capire A CHI va attribuita la paternità di questo articolo, che hai scritto . http://giano.luiss.it/prepararsi-al-meglio/una-questione-di-cervello/
ricordatevi che avere un lavoro pubblicato su Science, una delle riviste scientifiche più prestigiose al mondo….A me questo non dice un bel niente . Si trovano errori di ricerche in riviste di qualsiasi livello e grado .
Peccato che si trovano meno le smentite . e qui la questione si farebbe lunga .
Albanesi è libero di sputare su chi vuole: resta il fatto che non è un ricercatore, non significa che una persona non possa obbiettare e non trovarsi da accordo con quello trova scritto – “”anche se gli piace atteggiarsi a tale”” e qui ti sbagli completamente .
. E’ una brava persona, ma su questo tema il suo parere non conta nulla. questo lo dici Tu .
Chiunque esso sia se trae delle conclusioni logiche e corrette non vedo per quale motivo non dovrebbe contare nulla . Tanto varrebbe che nessuno criticasse quello che trova scritto e prenda per oro colato ogni ricerca .
…I boscimani ancora oggi utilizzano l’ipertermia per bloccare la preda durante la caccia.
I Boscimani i migliori “tracker” [ ricercatori di tracce ] che ci sono sul pianeta, utilizzati in aiuto alla Polizia Australiana nei casi di Rapimento, hanno risolto più casi di rapimento i boscimani Australiani che tutta la Polizia Australiana messa assieme, Impedisci ad un Boscimane di seguire le tracce dell’animale, col cazzo che lo trova perché è andato in ipertermia .
Non ti piace l’esempio della Lepre . okay .
Diversi anni fa! dove abito fu fatta una scommessa tra amici, consisteva in questo: un cavallo per l’esattezza di razza pony doveva percorrere cento km di corsa trainando un calesse con quattro uomini sopra, poteva fermarsi una sola volta a metà percorso per soli dieci minuti [ bere e mangiare ] ok la scommessa fu vinta dal cavallo .
Sono convinto che non esista uomo a questo mondo capace di trainare un calesse con quattro uomini sopra per cento km facendo una sola sosta, allo stesso ritmo del cavallo .
Pietro, non pensavo certo a una “magia”. Ho capito il senso della cosa e lo trovo anche molto interessante, come pure tutto il discorso sul calo del glucosio e il “salvavita”.
Ma penso che la vera differenza tra l’uomo e l’animale nella gestione delle proprie energie risieda proprio nella maggiore intelligenza del primo, che gli permette di ritrovare la calma, ragionare a mente fredda e recuperare le energie necessarie per andare avanti anche in situazioni di forte stress psicofisico.
Anche uscendo dal discorso della prestazione sportiva, si può guardare a quanto avviene nelle selezioni per le forze speciali, dove gli aspiranti vengono messi in forte condizione di stress psicofisico, privandoli del sonno, del cibo, dell’acqua e nello stesso tempo vengono sottoposti a prove fisiche di notevole difficoltà, appunto per selezionare quelli tra loro che mostrano di avere maggiori capacità nel gestire lo stress. Anche in questo caso interviene la forza di volontà, scatta un qualcosa che ti porta ad andare avanti nonostante il cervello e l’organismo chiedano uno stop.
Quanto poi queste capacità dipendono dallo sviluppo delle zone del cervello di cui parli e se queste si siano effettivamente evolute nel corso dei millenni per effetto della presunta particolare metodica di caccia dei nostri antichi progenitori non lo so, ma conservo i miei dubbi sul fatto che abbiano cacciato prevalentemente a quel modo per millenni, per i motivi che ho detto e perché l’Africa non era affatto tutta savana, come non lo è oggi. Magari lo sviluppo di quelle zone particolari della mente è più recente e dovuto ad altro.
Andrò a vedermi quel documentario, però. Quindi grazie per la dritta.
Ehilà Unoqualunque,
L’autore del pezzo che citi sono io. E’ specificato qui http://giano.luiss.it/prepararsi-al-meglio/
Sia il pezzo che hai citato che l’articolo qui sopra, sono estrapolazioni di un capitolo di un mio libro.
Comunque ho mandato alla redazione l’articolo originale di Bramble e Liebermann così te lo puoi leggere e farti un’idea tua sulla questione. Poi se vuoi ne riparliamo. Ciao
Ciao Deadboy,
sono d’accordo, la questione è complessa. Ma bisogna pensare che negli ultimi due milioni di anni hanno girato per il nostro pianeta vari gruppi di ominidi che si sono poi estinti (l’esempio del Neandertal è il più celebre). L’Homo Sapiens Sapiens deriva da un gruppo collocabile in aree molto precise, dalle quali si è diffuso ovunque DOPO. Per cui è probabile che determinati adattamenti fossero già stati selezionati in modo decisivo al momento della diffusione su grande scala. Oggi si ritiene che lo sviluppo finale alle aree prefrontali sia stato legato alla vita in grossi gruppi sociali, dove è diventato enormemente importante l’autocontrollo ( x es. non posso per esempio sparare a tutti quelli che mi sono antipatici ? ). I meccanismi di autocontrollo si sono evoluti partendo da quei meccanismi che ti facevano resistere alla tentazione di fermarti per la fatica (per lo meno si riscontra l’attivazione delle stesse aree quando un soggetto è sottoposto sia ad un compito del primo che del secondo tipo). L’altra grande evidenza deriva dagli esami sul cervello degli atleti: è diverso funzionalmente, c’è poco da fare. E la grande differenza sta sempre lì. Spero più avanti ci sia spazio per parlare in modo approfondito di queste cose. Ciao
Eh, ma i meccanismi di autocontrollo sono sviluppati anche negli animali. Basta guardare un qualsiasi predatore mentre caccia per rendersene conto.
Sarebbe più sensato fare questo confronto osservando il comportamento animale nel loro ambiente naturale, senza fare raffronti forzati tipo quello della gara uomo contro cavallo, dove per giunta al cavallo si danno degli handicap.
Gli animali diversi dall’uomo si sono evoluti per far fronte a determinate esigenze legate all’ambiente in cui hanno vissuto per migliaia di anni, quindi se io li costringo ad affrontare una situazione che in natura non hanno mai vissuto o difficilmente dovrebbero superare li metto in crisi ed è naturale allora che non siano in grado di gestirsi al meglio, ma reagiscano d’istinto e vadano nel panico.
La fregatura in questi confronti uomo contro animale è che l’animale si deve sempre muovere entro i paletti stabiliti dall’uomo. 😀
L’autore del pezzo che citi sono io. Questo mi fa PIACERE
Sia il pezzo che hai citato che l’articolo qui sopra, sono estrapolazioni di un capitolo di un mio libro.
Comunque ho mandato alla redazione l’articolo originale di Bramble e Liebermann così te lo puoi leggere e farti un’idea tua sulla questione.
Non mi fossi fatto un’idea mia, non sarei nemmeno intervenuto.
Comunque GRAZIE
Trovo l’articolo per niente banale. Suggerisco agli amici del forum, quando l’autore indica la luna, di guardare la luna e non il dito.
Nemmeno io lo trovo banale, però il plurale che hai usato non mi piace, visto che qui ci ho scritto anch’io.
Ho capito bene di che discute l’articolo, ma il mio interesse finisce qui e se c’è un aspetto del discorso che non mi quadra o su cui ho delle perplessità, qui come in altri articoli, dico la mai se mi va, anche se riguarda un aspetto secondario (o apparentemente tale) della questione.
È arrivato il commento Intelligente, che da dello stolto a spada tratta .
Perfetto ” giannino ” è quello che mancava .
Sbagliato, non era e non è affatto nelle mie intenzioni dare dello stolto ad alcuno! Ho semplicemente, citando deadboy, “detto la mia”.
Articolo molto interessante, soprattutto per il rigore con cui è scritto.
Trovato anche abbastanza interessante l’articolo originale sugli adattamenti fisiologici alla corsa.
Decisamente interessante la seconda parte dell’articolo in cui si parla degli aspetti fisiologici della volontà.